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Il diavolo nell'ampolla di Adolfo Albertazzi pagina 5ondeggiando, la nebbia scopriva a poco a poco tutta la costa e svelava il verde vivo del grano. E anche l'aria si mosse. Lì dinanzi le foglioline dell'erba tremarono, piegarono, brillarono inargentate nel riflettere il sole che or sì or no le colpivano a pieno. Le galline beccavano nel fosso, tra le foglie morte, e di tanto in tanto, mentre si parlavano a grassa voce, ergevano il collo e la testa, per ascoltare e occhieggiare. Una balzò fuori. Bene incappottata di piume, cercò luogo da far covino al sole, e, sbattute le ali, si beò della polvere che le fumava dintorno. Garrivano i passeri; si chiamavano i ragazzi lontano. E una figura di donna sorse improvvisa alla riva, nera e lieve quale un'ombra; si colorì nella gonna, nel fazzoletto che le copriva quasi tutto il volto; e súbito disparve, per ricomparire e disparir poco dopo. — L'Assunta che raccoglie la mia e la sua cena — pensò don Fiorenzo. Povera vecchia! Quanto le doveva! Da anni lei e il figlio Andrea condividevano la sua povertà; nè essa si lamentava: si lamentava Andrea, mal rimunerato del triplice ufficio di campanaro, becchino e vignaiuolo, ma essa lo quetava dicendogli: — Quando il curato ne avrà, ce ne darà, anche a noi. È un santo. Ora il curato ne aveva.... Dargliene? — Faremo un buon desinaretto il primo dell'anno — pensò don Fiorenzo con agevole trapasso. — Una bella mangiatina, fra tre giorni. E sorrise, indulgente a sè stesso, alla sua debolezza. In verità, per resistere alla gola aveva patito più che per ogni altra tentazione e contrizione; forse perchè aveva patito tanto da ragazzo! E riebbe il senso doloroso e strano d'allorchè, coi libri sotto il braccio e le mani nelle tasche vuote, si fermava in città, davanti alle vetrine dei pasticcieri e alle botteghe dei fruttaioli. In uno stupore avido assaporava con gli occhi, con l'anima le ignote dolcezze; e quelle delizie inafferrabili gli mettevano nel sangue e nei nervi come una esasperazione e quasi uno spasimo; da piangere. Più tardi aveva costrette in sè voglie ben più sostanziali ma non minori. Oh un cappone arrosto! E i capponi bisognava venderli. Oh i cappelletti in brodo! E il riso era la minestra dei dì solenni. Oh una torta vanigliata! E grazie se gliene toccava, rare volte, alle feste d'altre parrocchie! I colleghi non scorgevano che fatica egli durava a contenersi nei loro pranzi e a ingoiar acquolina. Piuttosto essi lo accusavano di poca sollecitudine, di poco zelo nel suo ministero. A torto? del tutto? No? Forse no. Perchè..., perchè egli non era stato abbastanza sincero nel confortare gli infelici sentendosi più infelice di loro; non era stato abbastanza ardente e puro nei riti essendo angustiato sempre dagli affari e dai debiti, quando non erano i terrori delle cambiali in scadenza, delle citazioni e dei sequestri. Maledetti i quattrini!, allora.... Ma adesso, oh!, adesso che gli ridavano la pace e la gioia, eran benedetti, dentro quella cassaforte, anche dall'invulnerabile custode! — Signore, mi raccomando a Voi! — ripetè don Fiorenzo; e nell'invocazione, congiunse al desiderio d'essere perdonato delle sue mancanze, la piena fiducia di meritar tuttavia aiuto e difesa. Quindi tornò a guardar fuori di sè. Il sole risplendeva libero, ora, d'ogni velame; con raggi vibranti di vita inesausta rianimava tutte le cose intirizzite, assopite, stinte, spogliate, strinate dal freddo, e ai suoi raggi correva in tutto, sensibilmente, una aspettazione benefica: di fronde e foglie negli alberi, di acque chiare nel rio, di fiori tra l'erba, di spiche sulla costa, di grappoli nella vigna, di opere e di canti agli uomini. Potenza di Dio! Questo granellino di polvere sperso nell'infinito, che dicono sia la nostra terra, come è grande!, che portenti racchiude! Quante energie! Quante creature! Quante forme diverse di erbe e di fiori, di colori e profumi! quante sorgive limpide e fresche! quante messi e granaglie! quante sorti di uva bianca e nera, e che vini! Nella ingenua ignoranza pareva al povero prete d'essere improvvisamente illuminato quel giorno da una miracolosa rivelazione. Per la prima volta immaginava con anima partecipe la gioia del vivere in ogni cosa vivente. Gli pareva di tornare nel mondo dopo esserne stato escluso fin dall'infanzia, e di comprendere, di vederne solo ora le segrete leggi di armonia naturale ed arcana. Mai, mai aveva riflettuto così sulle semine che riposano nell'inverno e al lento sviluppo dei germi e al verzicare; mai aveva pensato che le creature vegetative fossero uguali, nell'immensa voluttà dell'esistere, alle animali, alle umane; e tutte uguali nell'amplesso di Dio. Mai, mai aveva pensato alle forze fecondatrici e vivificatrici e pensato anche, così, all'unico palpito universale, al totale amore profondo e sublime. E questo piacere che aveva adesso dalla mente e dal cuore, questa coscienza di penetrazione, la quale pareggiava lui, povero prete ignorante, allo scienziato e al sapiente, a poco a poco lo turbava, l'affannava come un astemio che teme di inebriarsi e si inebria quasi senza volere. Ne resistè. Provò il bisogno di espandere liberamente quell'intima gioia; ebbe voglia di cantare. Ma seguendo a voce sommessa la patetica cadenza dell'inno a Santa Lucia, s'intenerì; dovè smettere, recitare, con la solita fretta, una preghiera. E lo riprese il senso gioioso di prima: anzi più alacre, più copioso, più possente. Gli pareva di sentire il fluido che nutriva le midolle arboree, che a primavera dilatava le scorze e rompeva in gemme; di sentire la virtù che faceva fiorire i bocci, l'irrequietudine vitale che agitava in istrida e voli i passeri, la tranquillità vitale che faceva chiocciar le galline vicine a lui; e sentì da lontano, impetuoso, precipitoso, avanzare il trotto di un cavallo. Avanzava, avanzava. Divenne, istantaneamente, quel trotto, un galoppo furioso, il rombo di cento cavalli sfrenati in una confusione enorme. Una confusione enorme, dentro, nel cuore; dentro nel cervello. Un crollo, uno schianto dell'universo; e il sole rosso, di sangue. — Gesummaria! Tentò d'alzarsi in piedi. Ricadde. L'Assunta, che rincasava con una grembiulata di duri radicchi e d'ispide cicerbite, credendo che il curato dormisse, lo sgridò: — Dorme al sole? Fa male. Ma accostatasi vide meglio; e si diè a urlare: — Andrea! Andrea! .... Presto la voce della disgrazia corse dalla canonica alla prima casa; di là, per tutta la parrocchia. In paese portò la notizia il medico: il quale era giunto lassù quando non gli restava che constatare il decesso, per aneurisma. E uno, entrando all'osteria del Gallo, annunziò: — È morto d'un accidente il curato del Palèsio. L'Americano stava giocando. Volse il capo; e rimase con le carte a mezz'aria. Appena però Bisaccia, il commerciante, che mangiava in disparte, ebbe esclamato: — Gli ho pagato stamattina i quattrini dell'uva e del grano, ed era tutto svelto! —, l'Americano gettò le carte, si staccò dalla tavola, si raccomandò all'oste: — Un cavallo, un biroccino, subito! È morto mio fratello! Sì: suo fratello. Là in canonica, nel letto, scorgendolo quale se riposasse queto e contento, ritrasse lo sguardo; e mentre l'Assunta in ginocchio biascicava il rosario e Andrea smoccolava con le dita le candele che gocciavano, l'Americano tolse dal portapanni la veste e il panciotto, frugò nelle tasche, invano; borbottò parole incomprensibili. Poi mise sossopra quant'era nel canterano e nella cassapanca. Poi disse ad Andrea: — Aiutami! Levarono il morto dal letto e lo adagiarono su la cassapanca. Ma anche dentro al pagliericcio non si trovò niente. Nè si trovò nessun mattone smosso. Allora lui, il fratello, aggrottando le ciglia, chiese: — Questa mattina è venuto Bisaccia, il mercante? Era venuto. — E dove sono i quattrini? La vecchia non rispose. Il figlio rispose: — Non lo so. — Badate — disse l'altro — che saltin fuori prima di notte, o vi denuncio! E uscì a rovistare altrove. 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