Il diavolo nell'ampolla di Adolfo Albertazzi pagina 15

Testo di pubblico dominio

talvolta arcuandosi nell'atto di tendere il braccio e la mano. Allora, se coglieva qualche cosa, gli balenava un sorriso dagli occhi chiari e guardava qua e là, come aspettasse di essere interrogato. Ma coloro che l'avevano osservato, e ridevano, si voltavano in fretta per non farsi scorgere; rispettavano in lui l'uomo generoso e diverso dagli altri ricchi appunto perchè, a parer loro, tócco nel cervello; e ne compativano la nuova, innocente manìa. Nessuno gli chiedeva: — Cosa accatta, signor conte? —; nessuno lo pungeva ironico o mostrava meraviglia; ed egli doveva mettere in tasca il chiodo e rimettere il discorso, pronto da un pezzo, a migliore occasione. Presto o tardi la sperimenterebbe, la virtù dell'esempio! — Infatti.... Una delle ultime fucine del Fossato era quella del fabbro Dondelli, detto Dondèla; e un giorno che questi lavorava altrove, il conte, quasi davanti al portone di lui, si chinò; con impeto allungò la mano.... Ahi! che dolore! Scottato. Le dita lasciarono subito la presa. Scottava, bruciava! Ma stringendo fra i denti il pollice e l'indice, in cui il chiodo aveva lasciato l'impronta della strinatura, il filosofo restò immobile ad aspettare. Il chiodo si raffredderebbe: no? Intanto risate di ragazzi, trattenute a fatica, giungevano da ogni bottega, come gemiti. — Ridono? — pensò il pensatore —. Dunque è una burla! E quasi il bruciore, che non scemava, gli affrettasse il raziocinio, seguitò: — Una burla senza intenzione di ferire in me avarizia o gretteria; tutti mi conoscono. È una burla ingenua, che attesta però una intelligenza non comune. Bravi! A questo punto nella bottega del falegname di contro il ridere si mutò in pianto schietto, e sotto la grandine degli scapaccioni paterni un garzoncello gridava: — Non sono stato io! È stato lui, là, che l'ha riscaldato! Celso! — Birichini! canaglie! — urlava il genitore per farsi ben udire dal signor conte. «Lui, là?» «Celso?» Il filosofo pigliò su, risolutamente, il chiodo ancor caldo; lo mise in tasca ed entrò nella fucina di Dondèla. — Celso — disse con l'usata dolcezza —, mi daresti un po' d'acqua? Subito, di dietro all'incudine dove se la godeva ridendo piano piano e solo, il ragazzo balzò a prender la secchia, la portò, la depose ai piedi del signore. Il quale v'immerse la destra e sogguardò mentre, refrigerato, seguitava tra sè: — Ha dell'ingegno; molto ingegno! Si vede dagli occhi; si capisce dalla prontezza degli atti. Dunque non è contento del suo stato. — E disse: — A te non ti piace di fare il fabbro. Il monello, che si aspettava tutt'altro discorso e tutt'altro tono, sorrise e rispose franco: — Nossignore. — Bene. Cosa ti piacerebbe di fare? Sempre più inanimito da quel "bene" rispose: — Il signore. — Ho capito — disse il filosofo. — Vorresti diventare ingegnere o avvocato o medico, o che cosa? Ma ora Celso rimase perplesso. Non erano dimande inopportune? «Fare il signore» non significava «far niente»? — Via! — insistè il conte rialzandosi e asciugandosi le dita nel fazzoletto. — Quale professione sceglieresti? Bisognava finirla. — Nessuna. Fu un nuovo colpo inatteso. Ma non doloroso; anzi! Al filosofo parve di giungere improvvisamente a una felice scoperta; tale che tacque a lungo. Poi tolti dal gilet alcuni soldi, li porse al ragazzo. — Ti ringrazio; e ci rivedremo. Era poco lungi, per la strada, quando udì dei passi dietro a sè. Si volse. Celso col cappello in mano, disse (e le labbra gli tremavano): — Mi perdona? Il conte gli pose la destra sulla spalla e tornò a fissarlo. Che occhi! — Sì, figliuolo! E riprese la strada pensando: — Intelligenza; animo ardito; cuore, e, per di più, inclinazione latente! II. Questa dell'«inclinazione latente» era una delle sue idee. Anche nel campo dell'intelligenza — diceva — la natura è non di rado riserbata, quasi timida, gelosa dei suoi tesori; e ingegni non comuni restano improduttivi e sconosciuti non solo perchè sono mancate le condizioni propizie al loro sviluppo, ma perchè nessuno ne ha saputo intuire la disposizione segreta, rimasta ignota a loro stessi; nessuno ne ha eccitate le intime facoltà creative. — E soggiungeva candidamente: — È il mio caso. Io non sono un imbecille, eppure a sessant'anni non so ancora come sarei potuto riuscire più utile alla società e alla patria, e divenire un bravomo. — Facendo il professore di filosofia — insinuava qualcuno, credendo di fargli piacere. Egli scuoteva il capo. — No, sarei stato ugualmente inutile. Per esser utile, da un pezzo, aveva rivolta l'attenzione psicologica agli adolescenti che conosceva. Ma non uno che dimostrasse d'aver molto sale in testa e alla domanda: — In qual modo, per che via preferiresti diventare un uomo celebre? — rispondesse: «Non lo so». Lo troverò una volta o l'altra — ripeteva il filosofo, saldo nella sua convinzione. Finalmente! L'aveva trovato nella fucina di un povero fabbro! Dondèla ebbe l'avviso di presentarsi la mattina dopo al palazzo Agabiti; e vi andò di malavoglia, per causa del chiodo scottante, la cui storia già esilarava tutta la città. Invece l'aspettava una bella fortuna. Il conte gli propose di stipendiargli un garzone più abile di Celso e di assumere Celso al suo servizio. — Ho bisogno di un giovine che aiuti la vecchia Cleofe nelle faccende di casa; ho bisogno di uno che aiuti me nelle mie faccende: contabile, segretario, bibliotecario, ecc. — Misericordia! — esclamò Dondèla in un impeto di lealtà. — Ma cosa vuol cavarci da mio figlio? Non ha voglia di far niente! È la mia disperazione! — È la mia speranza! — ribattè il conte Mauro con solennità profetica. III. I libri dovevano prestar lo strumento più sicuro per l'assaggio intellettuale. Due o tre ore al giorno furono dedicate alla lettura e allo studio nella domestica biblioteca. E mentre uno ritornava ai filosofi primitivi, che amava di più, l'altro pareva immergersi tutto nei volumi dei novellieri, dei poeti e degli storici. Ore deliziose! Beati pomeriggi! Maestro e discepolo s'addormentavano a un tempo. Ma se si svegliava prima Celso, con una pagliuzza solleticava il naso del conte; questi agitava la mano quasi a scacciare una mosca e soffiava spalancando gli occhi, e chiedeva: — Hai letto? Bel libro, è vero? —. Se invece si svegliava prima lui, aspettava che il discepolo sollevasse il capo e guardasse confuso. Allora gli diceva: — La gloria, mio caro, non si acquista dormendo come noi. Solo a prezzo di fatiche e vigilie molti autori delle opere che ci stanno d'attorno sono arrivati a non morir mai. Col suo sorriso Celso pareva dire: — Eh via! che qualche buona dormitina la facevano anche loro! — Pensa alla gloria, ascóltati — seguitava il filosofo. — Non ti piacerebbe di vivere in eterno, sia pure in uno scaffale di biblioteca? Che cosa senti a tale pensiero? L'altro annusava e rispondeva: — Sento puzza di muffa. — Hai ragione — concludeva il conte Mauro —; apri le vetrate. Di quando in quando bisogna dare aria anche agli immortali. E uscivano a spasso. Non però in cerca di chiodi. La famosa raccolta era già finita, se non con la piena efficacia che il filosofo aveva sperata, in modo tuttavia abbastanza edificante. Più di una volta, uscendo di casa, si era imbattuto in monelli che gli offrivano manciate di chiodi spuntati e storti. Egli li ricompensava a soldi; e così il buon esempio fruttava ai raccoglitori, almeno dal lato economico. Ma Celso non esitò ad affermare che, per quanti chiodi perda l'umanità, quelli eran troppi, e dovevano essere rubati. — Bene! — fe' il conte. E con le tasche piene della raccolta legittima o illegittima, andò da tutti i fabbri e falegnami a chiedere: — Ve ne mancano? — Rispondevano di sì? Risarciva di sua tasca e diceva: — Se io non fossi andato alla mia ricerca, voi, ora, non sapreste d'aver un ladruncolo in bottega. Educatelo a mirar in alto. IV. Il

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