Il diavolo nell'ampolla di Adolfo Albertazzi pagina 17

Testo di pubblico dominio

all'Agabiti era rimasta una parente, press'a poco dell'età di Celso; una pronipote, per via di sorella. Allevata in collegio a Firenze, la signorina, orfana, tornò alla piccola città nativa assai di malavoglia; e temeva che lo zio la prendesse seco, in quella casa antica, con quella serva padrona. Fu affidata invece alla custodia e alle cure di una signora che, secondo le parole del conte, le farebbe da padre; cioè gliele darebbe tutte vinte senza nuocerle con la tenerezza d'una madre troppo debole: — come sarei io — seguitava per spiegarsi. E alla signorina Amelia non fu consentito di visitare lo zio che di otto in otto giorni. — Termine sufficiente — egli affermava — perchè tu non dimentichi che ti sto vicino, e io non dimentichi che tu saresti contentissima a starmi più vicina. Contentissima! A ogni visita la ragazza lo soffocava di chiacchiere e di carezze; e lui: — Ti ringrazio; ma come passa il tempo! Otto giorni volano! Essa rideva. Ora, dopo tante scene gioiose, non era da prevederne una lagrimosa? No; il filosofo non la previde, quantunque ritenesse la nipote non diversa dalla maggior parte delle donne. — Tutti lo dicono, zio, che vuoi più bene a Celso che a me! A questa uscita egli alzò gli occhi al cielo pensando: — Per mirar in alto le donne mirano al cuore; e forse dal loro punto di vista.... L'altra procedeva: — Bisogna dimostrare al mondo che non è vero. Lo zio disse dolcemente: — Suggeriscimi tu il modo. — Pagandomi un viaggetto a.... Parigi. Egli non si scompose punto, anzi ammise: — Hai ragione; per dare questa dimostrazione al mondo intero non c'è che Parigi! E gliela mandò; s'intende, con la tutrice, la quale aveva consigliata alla pupilla la scena lagrimevole. Avvenne che poco tempo dopo la partenza della signorina Amelia il conte proponesse a Celso una passeggiata in campagna, a un suo podere fuori di porta. Il tragitto non era breve; e per la strada maestra quanti vedevano l'Agabiti camminare così, piano piano, con l'ombrellone di tela cerata aperto a riparo della polvere più che del sole, si voltavano indietro sorridendo. Celso, quando non ne potè più, esclamò verso gl'importuni: — Andiamo a Parigi! Allora il conte si fermò, e disse: — Hai ragione. E riprese la via. Nel ritorno ripetè: — Hai ragione. Son vecchio; comperiamo un veicolo —. Manco a dirlo, Celso esaltò i benefizi e i piaceri delle automobili: non ultimi, quelli d'impolverare gli altri e di guidarne una lui. E appena a casa il conte Mauro gli fe' scrivere, alla rubrica delle spese imprevedute: «Lire ventimila per un'automobile; spesa quattro volte più grande che un viaggio a Parigi, perchè comprende la probabilità di un viaggio all'altro mondo, con la guida di Celso Dondelli». Ma Celso non aveva ancora sostenuti gli esami da chauffeur che il libro dei conti fu riaperto alle spese imprevedute e dato di rigo all'automobile. — Scrivi in sostituzione — il filosofo dettava: — lire diecimila al Ricovero, cinquemila all'Ospedale, tremila e cinquecento all'Asilo, più mille e cinquecento per un cavallo e una carrozza. Che ne dici? Il giovine alzò gli occhi al cielo: — Miriamo in alto — rispose. E aspettò cavallo e carrozza; acquisto fatto dal filosofo senza intermediari. Ecco. La carrozzella era della prima metà del secolo decimonono. Meno antico, sebbene bianco di pelo, il cavallo; e non brutto: solo, aveva il vizio di camminare con un po' di lingua fuori. Celso lo battezzò Gedeone, nome che piacque moltissimo al conte e ai concittadini. Parecchi di essi ogni volta che l'equipaggio attraversava adagio adagio la via principale per uscire alla campagna, ammiccavano al cocchiere con certe strizzatine d'occhi che significavano: «Te lo godi, eh, l'automobile?»; oppure: «Il tuo cavallo suda nella lingua come i cani». Le quali corbellature a mezzo disturbavano il mancato chauffeur. Preferiva le risate aperte e intere; e non tardò a provocarle, per ridere meglio lui, in ultimo. Del resto, non era vero che tafani e mosche infastidivano il buon Gedeone? — Se gli facessimo fare una coperta da passeggio? — E tu fagliela fare — consentì il conte. Figurarsi quando la quasi centenaria carrozza comparve preceduta da un'ampia gualdrappa di mussolina rosea, coi fiocchi, da cui uscivano due orecchie, una mezza lingua, una mezza coda e quattro mezze gambe! — Gedeone in veste da camera! — Ridono per noi? — il conte chiese. — Sì — rispose Celso —; ma non basta. — Hai ragione — confermò il filosofo sopra pensiero —. Non basta. Pochi giorni dopo evidentemente Gedeone era zoppo al piede destro, davanti. — Chiama subito il veterinario. — No — Celso disse —; lo curo io. Fu allora che gli balenò l'idea, al conte Mauro, della veterinaria quale inclinazione latente. Non ci aveva pensato mai perchè si era convinto che al giovine non piaceva la medicina. Ma adesso riflettè: — C'è differenza. C'è più soddisfazione. Gli animali non aiutano a sbagliare la diagnosi. — E mormorava sospirando: — Purchè io non ci rimetta il cavallo! Tutt'altro! La cura permise presto una passeggiata in campagna. Gedeone riapparve al pubblico con la gualdrappa rosea e un piede fasciato e grosso, simile a quello di un elefante. — Oh! Gedeone ha la gotta! Gedeone ha la pantofola! Il successo sperato da Celso non fallì. — Ridono per noi? — chiese il conte. — Sì. Ma vedrà al ritorno! E immaginare che bocche aperte quando il presunto gottoso attraversò la città di trotto; diritto; a dorso scoperto; senza pantofola! Un miracolo! un trionfo stupefacente! Scendendo, a casa, il conte esclamò: — Veterinaria! veterinaria! Ma Celso smorzò l'entusiasmo. Disse che per guarire Gedeone non aveva dovuto che levargli il sasso confitto tra il ferro e l'unghia. — Bravo! Occhio clinico! — No — corresse il giovane —; perchè il sasso gliel'ho messo io. Il conte riflettè; indi concluse: — Capisco. Hai fatto bene. Non fu della stessa opinione la signorina Amelia, appena reduce da Parigi. Ella tentò persuadere lo zio che certe buffonate non conferivano decoro alla nobiltà di casa Agabiti. Ribattè il conte che, a fil di logica, non è ridicolo chi si burla della ridicola mentalità paesana; al contrario, dà prova di serietà. E la nipote a sua volta osservò che i giovani seri fanno onore a chi li aiuta, con gli studi e con le opere. — Sì, ma non prima che quelli a cui spetta ne abbiano scoperta l'inclinazione latente. Questo còmpito è mio. — Eh! ci vuol altro! «Ci vuol altro?» La frase colpì il filosofo. Disse dolcemente, dopo un po': — Forse hai ragione anche tu. Ci vorrebbe la donna; la donna che io non trovai: una donna capace di mirare in alto, più in su del cuore. La signorina Amelia allora tacque. E poi si propose d'innamorare lei Celso Dondelli. VI. A scorgere Celso così mutato, pallido, con gli occhi or vaghi ed or fissi come in contemplazione, il conte dubitò che, per l'assiduo ammonimento di mirare in alto, il giovine fosse colto da un accesso di misticismo e si fosse destata in lui la vocazione di farsi frate. Per fortuna, una mattina mentre prendeva il caffè e latte, se lo vide davanti ancora diverso; in posizione di «attenti!», con l'aspetto dei grandi propositi; con la energica decisione dell'eroe o di chi ha perduto la testa. — Signor conte — disse calmo —; vado allievo sergente, in cavalleria. Soldato! Un colpo di mazza sul cranio! Ma non una di quelle mazzate che stordiscono; no: di quelle che spalancano tutte le finestre cerebrali a una luce repentina, inattesa, illimitata. Al filosofo s'illuminarono il passato, il presente, l'avvenire: il passato suo proprio, l'avvenire di Celso, il presente di tutti e due. Oh portento! Soldato! Soldato d'Italia! Ecco l'inclinazione latente, rivelata a un tratto! Di chi? di Celso? solo di Celso Dondelli? No, no: anche di lui, del conte Mauro Agabiti! La capiva adesso, di colpo, quale era l'inclinazione sua propria, adesso

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Argomenti: conte mauro,    madre troppo,    donna capace,    termine sufficiente,    spesa quattro

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