Fior di passione di Matilde Serao pagina 5

Testo di pubblico dominio

è così vero che è come la vita. Attorno a me i miei eroi esistono. In me, con me, per me, esistono le mie donne. Io le evoco, esse vengono. Le ho create io, sono vita mia, forma mia, mi appartengono, mi vogliono bene, lo le amo senza confine, senza misura, con la più cieca passione, io le amo. La mia innamorata non è Rosina che tu conosci, è Fulvia di cui io sono il creatore ed io l'amante. Fulvia figura ideale, più donna per me di Rosina. Io scrivo la loro storia, preso da una emozione che mi affoga, come se narrassi la vita dell'essere che adoro. Scrivo, scrivo, felice, entusiasmato di far sapere al pubblico la loro bellezza ed il loro amore, esaltato all'idea che queste divine creature faranno palpitare altri cuori. Altri come me le ameranno, queste fanciulle celestiali ed amorose, queste donne passionate. Io provo il piacere più profondo che sia dato provare allo spirito umano. Ma quando la loro vita declina, un'angoscia sottile mi vince; io le amo, non posso vederle declinare; quando sono prese dalla malattia per cui debbono morire, io le amo e mi lascio invadere dalla malinconia; quando esse precipitano alla catastrofe in cui debbono perire, io sono assalito dalla disperazione, perchè le amo. Poi, dovrebbero morire, mentre io le amo. Io, che le amo, dovrei ucciderle. Brevemente o lungamente dovrei descrivere la loro agonia e poi ammazzarle. Non posso. Il cuore mi si strazia e non posso. Mi par di uccidere, a tradimento, una persona viva e sana; mi pare di affogare, in un cantuccio oscuro, una donna senza difesa: mi pare di scannare, di notte, un bambino. Non posso ucciderle. Perchè dovrei uccidere l'amante che è bella, che è buona, che non m'ha tradito? Io non posso. Ho orrore di me e non posso. Aspetto, penso, rifletto, mi torturo. L'arte mi dice: Fulvia deve morire. Ed io le grido, piangendo: Non voglio che essa muoia! L'arte mi dice: Uccidila. Ed io mi consumo di dolore, gridando: Non posso, perchè l'amo. Io aspetto: aspettazione tormentosa. Nulla appare. Allora io salvo la mia creatura agonizzante nel modo meno artistico, più volgare che sia. Ella vive, io moro. Non è ridicolo ciò? Ma è straziante. Queste adorate figure che io non so uccidere, uccidono in me tutto: la felicità e la gloria. Io muoio della loro vita. Sulla Tomba. Quel pittore singolare faceva dei singolari quadri. Il suo grande pregio era l'energia del concetto vivamente spiegato nella forza del colore. Non piacevano a tutti i suoi quadri; specialmente a coloro che si compiacciono dei lavori leccati, verniciati e dipinti sino all'ultima linea; specialmente non piacevano ai cultori delle figure eleganti e pallide da acquarello, a quelli che vanno in estasi dinanzi ai toni delicati di una oleografia. Coloro che avevano questi gusti graziosi, gentili e meschini, trovavano i suoi quadri duri, troppo forti, troppo pieni di cose: vi si respirava un'aria troppo carica di ossigeno pei loro deboli polmoni. I paesaggi del pittore erano sempre contorti e violenti, dalle linee spezzate; i suoi Tramonti erano tragici, quasi un carattere di passione si mettesse nel sangue aggrumato del sole senza raggi. I suoi Interni erano cupi, un fondo unito, senza concessioni di forma, senza lenocinii d'artista poco coscenzioso che mette più in luce un seggiolone intagliato, un grande caminetto che le figure del suo quadro. Gli si addebitava anche una certa sprezzatura del disegno, un bizzarro modo di contorcere lo scorcio dei suoi personaggi, una ricerca dei soggetti gravi, e che fanno pensare. I suoi quadri avevano carattere. Il pittore era ancora giovane e robusto, malgrado otto o dieci anni di travaglio continuo per farsi accettare in questa società in cui pare che non tutti godano il diritto di vivere. Egli non aveva fatto che lavorare, lavorare sempre, ed il successo era venuto lentamente, ma era venuto. Aveva trentasei anni, ed era alto, fortissimo, con una testa poderosa e leonina, un po' rigida di contorni, con certe spalle erculee che reggevano ad ogni fatica. Quando la foga del dipingere se lo prendeva, allora rimaneva dodici ore in piedi, innanzi al cavalletto, senza provare un minuto di stanchezza, senza impallidire. Per ritrovare un paesaggio camminava per ore ed ore, inerpicandosi sulle roccie, scendendo nei burroni, salendo sugli alberi, scavalcando muri, nell'idea ostinata di vedere quello che doveva dipingere. Era costante, tenace, ferreo nella sua volontà. A trent'anni aveva sposato una creatura piccola, bianca, snella e bionda, quasi una bambina, tanto era gentilina, tutta graziette, tutta soavità. In realtà, lui non avrebbe osato chiedere quella poesia bionda e delicata, lui rude e colossale pittore. Gli pareva quasi di dovere spezzare quel fiorellino gracile. Ma lei lo avvinse così bene con le sue arie infantili e i trilli da uccellino della sua voce che lui ardì chiederla. Gliela dettero. Era già un pittore eccellente, la critica si occupava seriamente di lui, i suoi quadri si vendevano subito, non ad un altissimo prezzo, ma tanto da procurargli una bella agiatezza. Lui si sposò il suo bottoncino d'oro. Egli era felicissimo in casa, poichè Bianca, la moglie, gliela faceva trovare elegante, profumata dai fiori, ben calda l'inverno, ben fresca l'estate: poichè egli nulla sapeva dell'amministrazione, delle seccature mortali che affliggono la mente di un artista. Ma l'amore, il profondo ed unico amore della sua vita era quella giovanetta svelta che girava per la casa con la sua testa luminosa, coi grandi occhi sereni ed innocenti. Lui l'amava come un amante, come un marito, come un fratello, con un amore fatto di protezione e di adorazione. Non si sa se lei avesse o no amato mai il pittore. Lo aveva sposato. Tutte le lodi date al suo grand'artista l'avevano esaltata forse sino all'amore; ma, dopo il matrimonio, ci si era abituata e le venivano indifferenti. Naturalmente, come moltissime donne, non comprendeva punto l'arte. Le sembrava una cosa di lusso ed inutile. Quando vedeva il marito pensieroso, agitato, lei si stringeva nelle spalle con un piccolo atto di disdegno. Lei comprendeva che i quadri davano denaro, ma le parevano un po' folli coloro che li compravano. Quando il marito le narrava un progetto di un quadro, lei ascoltava, nascondendo uno sbadiglio dietro la manina. In ultimo, in mezzo all'entusiasmo dell'artista creatore ella gettava queste domande inquiete: --Credi che piacerà? E si venderà poi? Lui si sgomentava. Sua moglie non capiva, ma egli l'adorava. Quando comprese che la seccava, narrandole le sue idee, non gliene parlò più. Si tenne per sè i suoi sogni. Lei sola, a casa cominciava ad annoiarsi. Voleva uscire; lui non poteva accompagnarla. Orribilmente e taciturnamente geloso, la lasciò uscire sola. Fremeva dinanzi al quadro che dipingeva, pensando a coloro che nella via guardavano sua moglie, le dicevano qualche parolina di complimento, la seguivano forse. Sulla tela, la sprazzata del colore diventava efficace e passionata; ma in casa egli non domandava nulla, non faceva rimostranze. Le permise di avere il suo giorno di ricevimento, come una gran dama; cioè il permesso se lo prese lei, senza chiederlo. Lui vi faceva delle rapide comparse, un po' distratto, impacciato. Lei, in collera per vedergli la cravatta di traverso o le mani tinte di colore, mormorava, scuotendo la sua soave testolina bionda: --Questi artisti! Poi la condusse anche al ballo. Lui ci si trovava disorientato, con le sue spalle quadrate che sformavano la marsina, con la sua seria figura su cui erano così scarsi i sorrisi. Lei restava sino all'alba, ballando come solo le donnine gracili e delicate possono ballare. Lui la vedeva passare dalle braccia di un elegante sciocco a quelle di un brutto e cattivo soggetto, piena di buonumore, prodigando il suo spirito ed i suoi vezzi ad una folla di indifferenti; ma non le diceva nulla, molto felice quando poteva ravvolgerla nel bianco mantello ornato di piume e portarsela. In carrozza lei sbadigliava, sonnecchiando.

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Argomenti: dodici ore,    bianco mantello,    unico amore,    pittore singolare,    grande pregio

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