Fior di passione di Matilde Serao pagina 13

Testo di pubblico dominio

fata, di questa strega, di questa maliarda. Era il fascino, il filtro; avvinghiata ad essa che rappresentava la bugia e il tradimento, io sono stata la bugia e il tradimento. Nel tempo, accade altro. Un altro uomo mi amava veramente, con la lealtà spirituale delle anime elette; io lo amava con l'umiltà profonda del cuore che cerca riabilitarsi. Le nostre anime vibravano all'unisono nell'armonia potente dell'amore; si fondevano meravigliosamente nell'armonia dell'amore; era un affetto solo, completo, tutto divino e tutto umano. Ma la celestiale fusione durò poco. In un'ora suprema, mentre egli mi parlava soavemente, vidi comparire fra noi la donna dall'abito nero, che portava al collo un ramoscello di corallo rosso. Questa volta i soavi occhi lampeggiavano malignamente, le sue labbra di garofano sogghignavano. Egli mi parlava d'amore ed ella ghignava, ghignava. --Non ti credo--rispose a quell'uomo che diceva la verità. Così l'amore nostro divenne uno spasimo. Dietro il volto di lui, onesto e buono, io vedeva l'ovale sciupato della donna che ghignava; egli diceva un sì franco, sincero, e l'eco del fantasma era un no duro; egli mi accarezzava col suo sguardo innamorato, ed ella lampeggiava ferocemente gli occhi. --Non ti credo, non ti credo--ripetevo a quell'uomo, io diventata malvagia e scettica. Poi egli non credette più a me, mi vedeva sempre distratta, assorbita, scossa da subitanee paure, o perduta in esaurimenti mortali. --Tu non mi ami, tu sei lontana di qui; la tua anima è assente; oh ritorna, ritorna!--egli mi supplicava. Eppure ci amavamo; la maga pallida, dalle labbra di carmino, che ci scherniva, si metteva fra noi e ne faceva gelare il sangue, e rendeva deboli i nostri baci e fioche le voci. Io soffriva infinitamente più di lui, io che vedevo la maga sedersi accanto a noi, io che sentivo lo spavento di questo spettro salirmi al cervello e farmi delirare. Io che giunsi fino ad essere gelosa di quel fantasma a cui mi sembrava che egli dirigesse le sue parole di amore; io, che in uno scoppio di gelosia furiosa, gridai: --Tu m'inganni, tu ne ami un'altra, tu ami una donna pallida, sfinita, cogli occhi neri, le labbra sanguigne, la veste nera, il ramo di corallo rosso. Tu m'inganni, tu mi tradisci, tu ami l'altra! Egli mi guardò trasognato. --Tu sei quella--disse semplicemente. Mi condusse allo specchio; vidi nel cristallo una faccia smorta, consunta dall'età, dalla sofferenza, due occhi neri, ardenti, due labbra brucianti, una veste nera, un ramo di corallo rosso. Vidi la sua figura, che era la mia figura; urlai come una bestia: --Non sono pazza, non è la mia testa che devono curare, ma è la più fiera nemica che è entrata in me; il fantasma si è messo nell'anima mia. L'altra non vuole andarsene, vuol vivere in me, così siamo due; bisogna esorcizzarmi; chiamate un prete, e dica sul mio capo le parole sacre della preghiera che libera le anime! Scena. Tutta chiusa ancora nella pelliccia di lontra, con la veletta nera del cappellino ancora abbassata sugli occhi, con le mani ficcate e strette nel manicotto, donna Livia, ritta innanzi al caminetto, si riscaldava i piedini intirizziti alla vampa. A un tratto, nell'ombra della sera nascente, ella vide biancheggiare qualche cosa accanto a sè. --Chi è?--disse buttandosi indietro, improvvisamente sgomentata. --Sono io, Livia, non aver paura--rispose il marito, con tranquillità. --Ah! sei tu, Riccardo? Non ti ho inteso venire--e la voce si era subito raddolcita, era diventata tenera. --Non capisco come non abbiano portato i lumi. --Sono rientrata ora da Villa Borghese--mormorò lei, fiaccamente. Poi, tastando un poco, trovò il campanello elettrico sul muro e vi appoggiò il dito. Un servitore entrò con due lampade coperte da paralumi di seta azzurra che mitigavano la luce. Il salottino apparve nelle sue tinte un po' triste di velluto oliva con broccato oro vecchio, molto smorto; una quantità di rose thea sorgeva dai vasi di porcellana, dalle coppe di cristallo. Don Riccardo era in marsina, cravatta nera, gardenia all'occhiello. --Già pronto?--chiese donna Livia. --Ho sbagliato l'ora, non sono che le sei: aspetterò. E si distese nella poltrona, accanto al fuoco, incavalcò una gamba sopra un'altra. --Qui si fuma, eh Livia? --Certo. Cerca un po' le sigarette; sono su quel tavolinetto. --Ne ho anch'io, --Le mie saranno migliori, Riccardo. --Chi te le ha date? --Le ha portate Guido Caracciolo da Costantinopoli. Ella stessa gli portò i fiammiferi aspettando che lui accendesse. Egli si distese di nuovo, fumando. --Dunque, questo vostro pranzo di fondazione al Circolo è per le sette? --Sì, cara Livia, alle sette. Un pranzo tutto di uomini: sarà molto noioso. --Oh! noiosissimo. Donna Livia si sbottonava lentamente i guanti di capretto nero. --Almeno avessi dei vicini di pranzo divertenti: ti seccheresti meno, Riccardo mio. --I vicini sono Mario Torresparda e Filippo Ventimilla. --Quella Villa Borghese è una ghiacciaia--mormorò lei rabbrividendo dal freddo, presentando le manine inguantate alle fiamme. --Fai male ad andarci, allora--rispose il marito colla sua bella calma che niente arrivava a turbare. --Sai... l'abitudine. Oh, vi era una quantità di gente, giorno di festa, molte facce sconosciute oltre alle solite. La regina aveva una piuma rosa pallido sul cappello di velluto nero. Credi tu che mi stia bene il rosa pallido, Riccardo? --Tutto ti sta bene, cara! --Bella risposta! Infine ho incontrato Maria, Clara, Margherita, Teresa, Vittoria; Giorgio era solo, nel phaeton; Paola mi ha fatto segno se ci vedevamo stasera, le ho risposto di sì. Ci vieni tu? --Sì, dopo il pranzo. --Bravo! Ci sono restata troppo, a Villa Borghese, non mi accorgevo che era notte, poi sapevo che avrei pranzato sola. Brutto cattivo che sei! Sono stata anche da Sofia, prima di Villa Borghese; oh, se sapessi quante cose ho fatte oggi, dalle tre! Povera Sofia, il bimbo è sempre con le febbri e si è fatto magro, giallo; domani lo avvolgeranno negli scialli, lo metteranno in carrozza chiusa e lo porteranno a Tivoli; chi sa che il cambiamento d'aria gli faccia bene... --Federico parte con Sofia? --No, andrà ogni giorno a Tivoli. Che uomo freddo e antipaticissimo! Non ha vegliato una sola notte accanto al suo bambino, e Sofia da dodici notti non dorme... --Dicono che non sia suo, quel bambino,--osservò don Riccardo, scotendo le ceneri della sigaretta nel portacenere. --Lo dicono, è vero. Sofia si è troppo compromessa con Guido. L'ho incontrato, Guido, in piazza di Spagna, mentre andavo dalla sarta. Sono stata anche da questa sarta, per il vestito grigio, che, è inutile, per quanti sforzi ella faccia, e per quanto tempo mi faccia perdere, non arriva ad essermi conveniente. Un vestito è come un quadro: quando è sbagliato non si corregge più, bisogna buttarlo via e farne un altro. --Mi sembri poco soddisfatta della tua sarta da qualche tempo. Perchè non cambi? Perchè non fai venire tutto da Parigi? Io non me lo spiego. --Hai ragione, ma come fare? Questa qui mi si raccomanda, e poi spesso da Parigi mandano degli intrugli di colore di cui è impossibile servirsi. Crederesti che a Giulia hanno mandato un vestito verde! Piangeva, oggi. Sono stata anche da lei, un minuto, per vedere questo vestito che lei aspettava con una certa ansietà. Fiasco, Riccardo mio, fiasco! Un vestito verde chiaro! Il suo riso strillò per la stanza, poi, essendosi tolto il cappellino e sbottonata la pelliccia, si distese anche lei sulla poltroncina dall'altra parte del fuoco. Ora la volubilità nervosa con cui aveva parlato si chetava. Ella si passava lentamente le dita nei capelli biondi ondulati come per lisciarli. Don Riccardo accese un'altra sigaretta, e guardando il fuoco parlò così: --Livia, oggi tu sei uscita alle tre con la vittoria. Sei subito andata da Sofia e vi sei rimasta fino alle tre e venti; di lì sei andata da Giulia, dove sei rimasta dieci minuti; alle quattro eri innanzi al portone della tua sarta in

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Argomenti: sei andata,    lealtà spirituale,    celestiale fusione,    campanello elettrico,    velluto oliva

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