Fior di passione di Matilde Serao pagina 29

Testo di pubblico dominio

volentieri la corte, l'uno aspettava che l'altro incominciasse per vedere come era ricevuto. Certe faccie dicono chiaramente quello che vogliono. Ma la principessa aveva nel volto una volontà variabile--quindi misteriosa. Era più bella seduta, che in piedi. Il busto magnifico era troppo lungo, le gambe troppo corte. Per questo non ballava volentieri, non andava mai allo skating, andava volentieri a cavallo, con uno strascico lunghissimo da amazzone. Ma seduta nella carrozza, nel palchetto, in una poltroncina, in un angolo di divano, sembrava sopra un trono; inginocchiata nella chiesa, sembrava ancora sopra un trono. Non passeggiava mai. Appena si alzava dalla sua seggiola, l'illusione cadeva: molti l'hanno amata e disamata in una serata per questo. Il principe non era punto geloso, ma se lo fosse stato, un rimedio all'innamoramento dell'amante poteva essere condurre la moglie sempre a piedi. Ma lui non ci pensava. Si poteva supporre che i piedi della principessa fossero piccini, ma essa non li mostrava mai. Invece le mani erano lunghe, sottili, con certe unghie rosee e crudeli. Portava le dita cariche di gemme, d'ogni colore, d'ogni forma, sino al medio. Un carico di anelli, un carico odioso per cui nessuno poteva stringerle la mano: temevano farle male. Anzi si ripeteva dappertutto che li portava appunto per non lasciarsi stringere la mano. Pure di sera non calzava mai guanti, nella nudità provocante di quelle mani ingemmate come quelle di un idolo indiano. Così, alla rinfusa, come difetti e come qualità, ella aveva l'orecchio troppo piccolo, non si abbandonava mai col capo per stanchezza, impallidiva molto spesso lasciando scorgere l'onda del pallore che saliva dal collo alla fronte, si vedeva troppo in luce nel palco, salutava senza sorridere mai chinando lentamente la testa, parlava rapidissimamente, tirando indietro la lettera esse; la voce era molto bassa, sempre intima. Non faceva mai dello spirito, ma rideva sempre per quello degli altri. Non discuteva con nessuno, mai. Alla passeggiata della Riviera, non guardava mai il mare; sempre, fisamente, la collina di Posilipo. Ora la principessa è perduta. Non si sa perchè. S'è perduta per il suo sguardo grigio o pei suoi ventiquattro anni? Pel suo labbro troppo corto o per la sua larga indifferenza? Pei capelli arruffati o per la sua adorazione pel principe? Per le sue rose rosse o pel suo orgoglio? Non si sa. Ditemelo voi, amico, che odiate i ritratti di donna e v'innamorate delle sciarade. Novella Greca. Questa novella non è mia. Io l'ho udita narrare e me la son fatta ripetere più volte. Nei lunghi pomeriggi estivi, nelle lunghe sere d'inverno, io prendeva uno sgabello e sedeva ai piedi di mia madre, appoggiando il capo sulle sue ginocchia. Ella, accarezzando con la mano lieve e delicata i selvaggi capelli della mia testa indomita, mi narrava le storielle di Grecia, del nostro bel paese lontano, di cui ci pungeva il cuore la nostalgia: lei, una nostalgia piena di ricordi, me, una nostalgia fervida di speranze. Ora la mamma, i rimpianti, le speranze, tutto è sparito: ma nell'anima mi ronzano pian piano le novelle. Questa qui, come tutte le altre, è vera. Nereggia l'isola di Santa Maura. Chi passa al largo, pel mare Jonio la prende per uno scoglio bruno, arido e disabitato. La città, la campagna si scoprono dietro un gomito di terreno: piccola città edificata sopra un'eruzione vulcanica, due volte quasi distrutta dall'eruzione, con la previsione di una distruzione completa e di una scomparsa nelle onde del mare; la campagna, sparsa di vigneti e di ulivi. Nell'isola vi sono proprietarî, commercianti, agricoltori e pescatori. Vi si commercia di quell'uva minuta e nera, la passolina, che l'Inghilterra compra a milioni dalla Grecia per metterla nei suoi pasticcetti. I ricchi commercianti mandano i loro figliuoli a studiare a Londra e questi giovanotti ritornano all'isola verso i venticinque anni per darsi alla passolina; le figliuole, quelle ricche, sono educate in qualche collegio di Parigi e ritornano all'isola a diciotto per sposare un negoziante di passolina. Quest'uva piccina e nera, così saporita nei plum-puddings, è la base della felicità, dell'amore, di tutta l'esistenza in Santa Maura. Eppure Calliope Stavro odiava profondamente la passolina. Era una fanciulla a venti anni, alta, elegante di figura, con uno strano e gracile volto bruno sotto il biondo dei capelli, con certi singolari occhi verdi. Anche lei era stata educata a Parigi, una educazione frivola ed arida. L'anima sua era rimasta chiusa. Nel collegio le sue bizzarre e gaie amiche, con lo spiritello francese demolitore, le avevan messo in burla la Grecia, i Greci, i clefti, lord Byron, Haydée e l'uva passolina. Poi le avevan dato a leggere quello spiritoso, sincero e perfido libro di About: La Grèce contemporaine. A questo fuoco vivo di ridicolo, molte cose in lei si erano disseccate. Ella aveva rinunziato a questi sogni di gioventù, ed era ritornata all'isola taciturna, senza dire quello che odiava e quello che amava, ma serbando sul viso giovanile l'impronta torva ed annoiata di un'anima scontenta. Essa era fiera, ma più spesso indifferente; qualche volta un riso sprezzante e stridulo metteva la sua dissonanza in una conversazione, ma più spesso non vi era sorriso in lei; era capricciosa talvolta, ma più spesso lo sbadiglio ignobile contorceva la linea sottile della bocca: una stanchezza mortale decomponeva l'espressione del suo volto. Calliope Stavro non era poetica. Aveva un fidanzato e lo avrebbe sposato tranquillamente e senza ribellioni. Era un negoziante di uva, alto, ossuto, coi pomelli sporgenti, di un rosso affogato nel bruno, con tutta la faccia color mattone, bruciata dal sole, la barba nera, gli occhi neri, vivaci ed incavernati, le dita nodose. Aveva diciotto anni più della sua fidanzata, il che si usa laggiù. Galantuomo, ricco, grossolano, parlando un francese spaventoso ed un inglese commerciale, amando le canzonette italiane, il vino di Porto, idolatrando la passolina, era un buon fidanzato, sarebbe stato un ottimo marito. Faceva la sua corte nel modo più rudemente innamorato che sia possibile, e Calliope Stavro l'accettava senza disgusto, ma senza piacere. Poco a poco, nel segreto del cuore, ella entrava nell'indifferenza, nell'atonia. Le sue notti erano senza sogni. Nella bella stagione, nel maggio fiorito, venne a Santa Maura Paolo de Joanna, un giovanotto a ventott'anni, un po' Dalmata, un po' Italiano, cresciuto a Londra, a Parigi, a Firenze. Era viaggiatore, poeta e ricco--tre egoismi armoniosi. Per completare l'accordo, egli era bello. Era sbiancato nel volto di un pallor animato. L'arricciatura dei capelli nerissimi, un'arricciatura originale, non da bambino Gesù, ma da Nerone, gli dava un'aria di Dio antico. L'occhio lionato, dallo sguardo audace, smentiva talvolta la dolcezza dei tratti, la mollezza dei lineamenti. Più che bello era seducente. Simili uomini esistono--e piacciono moltissimo alle donne. Egli non sorrideva che raramente con quei sorrisi lenti che completano l'occhiata e che sottolineano la parola. La voce, questo incanto irresistibile, era grave, bassa. Parlava poco. Quando l'entusiasmo faceva vibrare le sue parole, invece di arrossire, impallidiva. Paolo si fermò a Santa Maura per un capriccio di viaggiatore raffinato che aborre le grandi città. Aveva lettere per i ricchi dell'isola. Ebbe liete accoglienze. Certo quei Greci bruni, attivi, poco poetici, molto magri e molto intraprendenti, guardavano con una certa diffidenza questo poeta bianco, felice e indolente, questo fanciullo bello, orgoglioso e ricco, pieno di languidezze femminili, di silenzi interessanti e di sguardi misteriosi. Ma lui aveva con essi quella dolcezza di modi, quell'attenzione amabile, quella cordialità rattenuta che affeziona le anime. Finirono per amarlo, con quella espansione greca che rassomiglia tanto a quella italiana. Egli non corteggiava le fanciulle, oppure le corteggiava

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Argomenti: fuoco vivo,    busto magnifico,    sguardo grigio,    labbro troppo,    mano lieve

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