Mattinate napoletane di Salvatore Di Giacomo pagina 8

Testo di pubblico dominio

d'ombra sotto quei muriccioli, e in mezzo al vicolo un accampamento di sole. Saliva la musica fino al Rione, chiamando i passanti, invitandoli alla platea solitaria di questo teatro improvvisato. E pei gradini diruti scendevano subitamente figurine femminili, allegri cavalierini in galanterie. Era un romore di stivalini saltellanti che faceva voltare il mio amico Richter. Egli pareva un vecchio passero solitario turbato da una folla accorrente di uccellini chiassoni. Si ricantucciava e non si moveva più. Qualche piccola signorina lo indicava, sorridendo. Certo il mio amico Richter impressionava. Era una figura originale, di quelle che i giornali illustrati tedeschi mettono in una novella semplice e buona, vivificata dalla matita di un artista di spirito. Parecchie volte lo incontravo in quei paraggi, con una valigetta appesa a una mano, l'eterna ombrella nell'altra. La valigetta s'empiva di frutta: di erbaggi di latticinii, d'un po' di tutto. Il mio amico Richter entrava frettolosamente nella bottega d'un pastaio, faceva di cappello con quella cortesia ch'è tutta tedesca e chiedeva due chilogrammi di vermicelli. E in un'ora egli si era provvisto di tutto il mangiabile e il cucinabile. Così tornava a S. Martino e di lì scendeva per andare a udir la musica in Villa Nazionale o in qualche altro posto dove musica si facesse. Era la sua grande passione. Una mattina lo vidi che seguiva le esequie di un capitano suicida. Era accanto alla banda musicale, tutto pensoso, l'eterna ombrella sotto il braccio. Lo vedevo poi qua a là per le vie, per le stradicciuole di Napoli, frettoloso, parlante a se stesso. Forse si recava alle sue lezioni di tedesco. Poi non lo vidi più. Scompaiono tante persone ogni giorno in questa Napoli, e tante ne compaiono di nuove! * * * Una sera, era qui la regina, si dava in onore di lei un concerto al Quartetto. Il vicoletto era pieno. Eravamo in parecchi amici, nella più grande aspettazione per un programma che prometteva Schumman, Wagner, Boccherini, Beethoven. La sala era certamente affollata, ma qui, nel vicoletto, al fresco, come si stava meglio, e senza pagare il biglietto! Per le aperte finestre uscivano il susurro degli intervenuti, lo strepito delle seggiole smosse, un fruscio d'abiti serici. Di tanto in tanto un accordo di violino, un suono rauco di tromba, una voce che chiamava. Il vicoletto fu, a un momento, tutto illuminato dalla luna che si liberava dall'impiccio di certe nuvole impromettenti, e campeggiava serenamente in cielo. Noi altri si chiacchierava, aspettando. Accosto a me era seduto un uomo occhialuto, dalla piccola e incolta barba nera. Un forestiero. Non so come io gli abbia rivolta la parola, ne so più perchè. Certo è che il mio vicino, tra una domanda e una risposta, brevi sempre, mi disse che egli era tedesco, ch'era professore di lingua tedesca, e che avrebbe desiderato di esser conosciuto. Ma lo disse, poverino, con una cert'aria! Pareva mortificato. Tedesco, professore? Certo conosceva il mio amico Otto Richter. —Otto Richter—borbottò, cercando nella memoria. Poi fece: —Ah! Richter! —Dunque? —Morto. Otto Richter? Professore? Morto. Una cosa molto semplice per questo signore meditabondo. Oh! povero
Richter! Ma come?
Il mio vicino pensò ancora. Ecco, era morto così—e si batteva in fronte—male di cervello. Tre giorni, non più. Poi morto. Dopo un momento cavò da un enorme portafogli la sua carta e me la porse. C'era su scritto, a mano: Corrado Weber, professore di lingua tedesca. —Chieggo scusa—balbettava il pover'uomo—io solo a Napoli, solo, solo. Così si vive, signor, lavorando. Richter mio buon amico. Poveretto. Improvvisamente un fragore di battimani giunse a noi dalla sala; subito dopo l'orchestra intuonò la marcia reale. La regina entrava. Passarono quattro minuti; nessuno fiatava nel vicolo. Io pensavo al mio vecchio amico Richter, al mio povero vecchietto musicomane. —E quando è morto? —Psst!—fece Weber—Chieggo scusa, signor. Dopo. Cominciava la musica. Si levò in piedi, si scappellò e si mise ad ascoltare con religiosa attenzione. SENZA VEDERLO Siccome in questo mondo chi pensa ai casi suoi e mette le cose a posto è chiamato accorto, così, quando dopo la morte di Selletta, spazzino, il quale prima aveva fatto il fiaccheraio e prima ancora avea governato un negoziuccio di commestibili, la vedova Carmela chiuse un suo maschietto all'Albergo dei Poveri, la bambinella mandò a imparar di cucire da una sartina, e si tenne in casa soltanto il marmocchio che le succhiava la vita appeso tutta la santa giornata al petto vizzo, delle vicine parecchie, e furono le più attempate, dissero che avea fatto bene a provvedere a quel modo alle cose sue, sconsolata e impoverita come Selletta l'avea lasciata. Dissero le altre, poche, e furono le mammine fresche del vicinato, le quali cominciavano con la prima maternità a raccôr tutto l'amor loro sui figliuoli, che questi erano il riso della casa e che proprio ci voleva un core assai duro per allontanarli e un coraggio, via, un coraggio! —Come fate a rimaner tutta sola?—diceva alla vedova Nunziata Fusco, una bionda grassetta, con in collo un bambino biondo, grassotto come lei. —Dite voi—piagnucolava Carmela—come avrei potuto fare con tre angioletti attorno? Sono tre bocche, sono. E poi Nanninella, voi sapete, torna a sera dalla sarta e la notte m'è compagnia. Impara l'arte, oramai è grandicella. Per Peppino… voi dite che… lì, all'Albergo… è brutto, non è vero? L'altra diceva: —Sentite, me ne sarebbe mancato il coraggio. Voi non lo vedete più,
Peppino, e lui non vede più voi. E chi chiama se ammala?
—Come! Allora non sapete niente. Lì si trova come a casa sua e niente gli manca… Ah! è vero—soggiungeva con le lagrime agli occhi—io non aveva pensato a questo, ma già, avranno medici e medicine, e se accade che lui s'ammali, lontano sia, me l'hanno da far sapere. —Vi dico che non lo fanno sapere—sentenziava la Fusco, carezzando il suo marmocchio, come per dire a Carmela: —Questo qui, vedete, me lo tengo io, che sono la mamma, e non uscirà mai di casa sua. La vedova rientrò in casa e corse a baciare così forte il suo piccino, che dormiva nella culla, da farlo svegliare in un sovrassalto. Il piccino piangeva. —Core mio!—fece lei—zitto, via, zitto. Oggi andiamo a trovare
Peppino.
Era venuto l'inverno a un tratto, con giornate buie e rigide. La casa di Selletta stringeva il cuore, tutta occupata dall'oscurità. Appena, di sotto l'uscio, ci si vedeva il lettuccio di contro le parete ove gli strappi al parato meschino scoprivano la grigia nudità del muro. L'umido penetrava nelle ossa; Selletta lì dentro ci aveva persa la salute. La vedova imbacuccò alla meglio il piccino e lei si buttò addosso lo sciallo nero che a quello era servito di coverta, nella cuna. Cercava ora la chiave della porta. La trovò nella cenere fredda del braciere che con quella aveva scavata il giorno prima, per riattizzare il fuoco. —Andiamo da Peppino—ripeteva al marmocchio, chiudendo l'uscio. La viuzza, trafficata dai piccoli venditori e dal vicinato in movimento, pareva allegra. Nel lontano, per un vicoletto che vi sbucava, una larga striscia di sole tratteneva i passanti, i quali si fermavano apposta in quel po' di caldo a chiacchierare. —Dove andate?—chiese alla vedova una vicina—Avete vista la buona giornata, e andate a spasso? —Andiamo da Peppino—disse Carmela mettendo in tasca la chiave. —Peppino chi? —Peppino mio figlio, che ho messo a scuola all'Albergo dei Poveri quando Selletta è morto, buon'anima sua. È stato lui che me l'ha raccomandato. Diceva: mettilo lì perchè impara l'arte e non toglie pane alla casa. —E voi l'andate a trovare? —Sono tre settimane che non lo vedo, e questo gli farà piacere.
Lasciatemi andare, bella mia, buongiorno.
E tirò via col bambino in collo, trascinando per la mota della viuzza un lembo della gonna lacera. In quel pezzo

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