Mattinate napoletane di Salvatore Di Giacomo pagina 7

Testo di pubblico dominio

verde; il Rione è elegante; il Corso è tutto polveroso per la via larga e assolata; il Rione è severamente pulito. Qui un palazzo Grifeo, che ha un'aria d'antico e una salda costruzione di pietra grigia e nuda. Qui finestre archiacute che riflettono, a sera, nelle terse vetrate il gran chiarore della luna, la quale, di rimpetto, s'affaccia sul mare e vi bagna la sua pallida immagine. In uno studio d'incisione, sotto il palazzo grigio, si fonde e si cesella in silenzio. Un interno pieno di penombre; l'artista che passa e guarda, risale con la fantasia al vecchio tempo fiorentino. Se qui l'ambiente non fosse in gran parte lieto dell'orizzonte glauco e d'un profumo d'erbe selvatiche, e se non parlassero dell'amore della campagna i sanguigni rosolacci erti, e se non chiacchierassero, migrando a non lontane nidiate, gli uccellini freddolosi, la bottega dell'incisore parrebbe antica, quando intorno le capitassero muri grigi e stemmi onorati da vanti di toghe o di corazze. In questo tempo nostro, il rione è semplicemente felice della sua nettezza e del posto. A un certo punto il parapetto della via è rotto dai primi gradini d'una scaletta malconcia. Per questa si scende in un solitario vicolo, e si esce così, passando sotto un potente arco a Chiaia, nel quartiere elegante. Dalla pace al romore, dalla tranquillità delle cose e delle persone a un movimento che vi rimette dal sogno nella realtà. In certe ore, in certi momenti, il vicoletto vi parla di tante strane e misteriose cose. Fu in questo vicoletto che conobbi il professore Otto Richter. * * * Era una lieta mattina primaverile. Vi giuro, amici miei, così non dico pel convenzionalismo che infiora quasi tutti i racconti dolci di tenerezze meteorologiche. È la verità, la conoscenza accadde in aprile. A ogni modo, Otto Richter lo conobbi così. Io scendevo lentamente per quella tale scaletta; egli se ne stava laggiù nel vicolo, all'ombra, piantata la punta di un ombrello nel terriccio, le mani sul manico di madreperla a gruccia. Con le spalle al muro, gli occhi a terra, il vecchietto m'aveva l'aria di star meditando. Ora siccome in questa vita i pensosi sono, per lo più, i disgraziati, io che lo aveva visto dall'alto della scala piantato lì a quel modo, e me lo ritrovavo nella stessa posizione appena dall'ultimo gradino mettevo piede nel vicoletto, dissi tra me e me: —Ecco uno che certamente crogiuola i guai suoi. Il vicolo era pieno di buon sole e di silenzio. Improvvisamente fu pieno di musica. Come mai?—pensavo, tornando indietro, colpito deliziosamente da una melodia che si spandeva. Il vecchio s'era mosso; passava al sole dall'ombra, avvicinandosi a una delle tre finestre basse che si aprivano sul vicolo dal muro di faccia a noi. Alle finestre ci si arrivava quasi con la testa. Le vetrate erano spalancate e la musica passava. Ma la facevano misteriosa certe bianche tendine, occupanti di dentro tutto il vano e pur di dentro fermate sulle assi d'un telaio. Accostandomi alle finestre, m'avvicinavo pur al vecchietto, e procuravo di non far romore; era così assorto poverino! L'ombrella era passata sotto l'ascella, le mani strette premevano l'ultimo bottone del panciotto ch'era in cima carezzato dalla barba rossiccia del solitario uditore. A volte, mentre la melodia saliva con più sonoro ritmo, le mani si staccavano dal panciotto, e una, l'indice teso, misurava il tempo. Si afferrava l'altra, nervosamente, al margine del soprabito, come se volesse tirar giù il panno stinto. Finita la musica il vecchietto levò il capo; sorrideva. Me gli trovai faccia o faccia; egli seguitava a sorridere, seguitava ad armeggiar con la mano, mormorando l'ultima frase musicale, solenne. Mi feci animo e gli chiesi: —Scusi, chi c'è qui dentro? Lui fece un passo innanti, rimise in movimento l'ombrella e venne a me con una chiara felicità negli occhietti azzurri. Rispose: —Beethoven. Col braccio levato misurò ancora quattro o cinque battute e canticchiò un'altra volta le note. —Molto grande,—soggiunse con le labbra allungate in una smorfia d'ammirazione—molto grande! Questa sinfonia monumento. Oh!… Piace a voi, signor? Dio mio! Una così deliziosa cosa! A chi non piace la musica di Beethoven, amici miei? Gli è che non sapevo persuadermi come lì dentro ci fosse proprio lui. Egli certamente è presente ancora all'esecuzione della sua musica, il suo spirito aleggia intorno. E la musica trema con divino ed infinito sospiro di sentimento, la melodia culla l'anima. Io avevo ben riconosciuta la Pastorale. Ricordate, voi, amici? Ah! perchè la musica non si può scrivere e leggere come la parola!… —Lei dice che la musica è di Beethoven—feci, ridendo—e sta bene. Ma com'è che Beethoven si trova lì dentro? È risuscitato? Lui rispose lentamente, tutto serio: —Beethoven morto assai tempo. Qui Società Quartetto. Concerto. —Forestiere lei? —Allemand, di Germania. Tetesco. —E vive qui, a Napoli? Disse con gli occhi di sì. E poi accennò pure che tacessi e si riavvicinò alle finestre. Ricominciava la musica. Chi ora? —Psst—fece lui—Bocherino. Mise l'indice sulle labbra e socchiuse gli occhi, come rapito. Che finezza, che languore, amici miei! La conoscete voi questa Siciliana del gentile minuettista? Come sorrideva il vecchietto in tutta la durata dei sospiri del settecento, agli scherzi dei violini, rievocanti tutto un passato dolce, sparso di polvere d'iris e odoroso di buon cioccolatte. Cari amici, in questo vicoletto al Rione si sogna; e che buon sole, che buona musica, amici miei! * * * E vi tornai. Ancora il professore Otto Richter non mi aveva tutto narrato di sè. La sua piccola figura da racconto d'Hoffmannn o d'Erckmann-Chatrian, la sua placida figura tedesca serbava qualcosa di misterioso ch'io cercavo invano di scrutare e su cui arzigogolavo senza raccapezzarmici. Seppi soltanto questo da lui, alle prime confidenze, ch'egli era venuto di Germania in Italia a piedi. Amici, capite? A piedi. Ne rimasi inorridito; io che adoro le vetture, la ferrovia, le tramvie, tutto che è mezzo di trasporto! Il mio sguardo scese subito alle scarpe del buon uomo, due scarpe punto eleganti, dal tomaio piatto, basso, enorme, dalla punta quadrata, dalle suola doppie tre dita. Vere scarpe nordiche. Egli posava su quel piedestallo e sorrideva, contentissimo. Aveva, parlando, un certo ammiccar d'occhi malizioso, pel quale gli si arricciavano le gote. Tutta la faccia diventava una ruga sola. Parlava a bassa voce. E poi seppi, pure da lui, ch'egli era a Napoli da tempo, che abitava nel torrione di S. Martino, che in tutta la santa giornata girava nella città dando lezioni di lingua tedesca. —Voi non conoscete?—fece lui. —No—risposi, mortificato—Ma amerei imparare la vostra lingua. —Desiderate lezione?—disse lui, sorridendo.—Parleremo di questo. Poi non ne parlammo più. Era un vecchietto pieno di delicatezze. Continuavano le prove della Società del Quartetto. Una mattina il professore Otto Richter se ne venne nel vicoletto con tra mani un libriccino di elegante edizione tedesca. —E questo? —Questo? Trattato veleni. Veleni? Che faccia feci? Ma il vecchietto si affrettò a soggiungere, battendo in petto la mano aperta: —Io anche un poco medico. Un po' medico, un poco poeta, un poco pittore—egli era un po' di tutto. Sopratutto un musicomane. La mia ammirazione cresceva di domenica in domenica, come i concerti del Quartetto si seguivano e ci teneva insieme la comodità del vicoletto. Bisognava vedere il mio amico Otto Richter mentre romoreggiava, di dentro, la Cavalcata delle Walcüre. Quel buon Richter! Coi pugni stretti, gli occhi lampeggianti, le gambe allargate, l'ombrella brandita come la frusta d'una delle ammazzoni wagneriane, facendo: Pa pa ta pa! Pa pa ta pa! Papatapa! Zin! * * * Passò un mese, un felice mese di pruove e di concerti. Non mancammo mai. Sui muricciuoli del vicoletto spuntavano fiorellini gialli e tutte lo creste n'erano vestite. Una striscia

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Argomenti: professore otto,    vecchio tempo,    potente arco,    infinito sospiro,    vecchietto pieno

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