Mattinate napoletane di Salvatore Di Giacomo pagina 10

Testo di pubblico dominio

meglio sul petto il bambino, e rimase lì impiedi, aspettando ancora, sperando ancora. —È proprio impossibile?—mormorò timidamente. —Eh?—fece il vecchio—sicuro, impossibile. Voi siete sua madre, non è vero? —Sissignore, sua madre. —Impossibile, bella mia—borbottò—come si fa? Dovreste tornare.
Tornate…. tornate lunedì, che c'è udienza, non è vero Mazzia?
Mazzia guardava difuori. Non udì e non rispose. La vedova arrossiva. Cacciò lentamente la mano nel grembiale di
Nannina.
—Perdonatemi—balbettò—io gli avevo portato… gli volevo lasciare… queste mele… perdonatemi…. —Date qua—disse il vecchio. La bambina già ne avea posate due sulla scrivania, accanto al bel calamaio. Lui prese la terza e la mise presso alle altre. —Perdonatemi l'ardire—mormorava la vedova. —Via—fece lui, dolcemente. —Torno lunedì? —Sì, sì, lunedì… più tardi. Non venite da me, chiedete del direttore, lui saprà dirvi… La vedova gli prese la mano ch'egli stendeva a carezzar la bambina, e fece per baciargliela. —Oh!—esclamò lui, come spaventato—lasciate stare, bella mia. Addio, addio… buona giornata…. Erano uscite. Il vecchietto rimase impiedi presso la porta. Ascoltava il rumore delle ciabatte della vedova su per la scala, la vocetta della bambina che interrogava. Mazzia si ricollocò di faccia a lui e gli mise innanzi le carte. —Piano—disse il vecchietto—non c'è fretta…. Vi fu un silenzio. Il segretario scoteva malinconicamente la testa. —Glie lo dirà il direttore, lunedì—mormorò—io no, di certo. Non voglio ricominciare la giornata a questo modo. Asciugati gli occhiali se li piantò sul naso, tossì, soffiò nelle mani e riprese la penna. —Ah! Signore Iddio!—sospirò—Buon Dio di pace e d'amore!…. Date qua, Mazzia…. LA REGINA DI MEZZOCANNONE Aprile 1886 Finora Mezzocannone ha avuto solo un re, quel buffo re di creta bronzata, mangiato dal tempo e dalle intemperie nel naso e nelle mani e negli occhi, nero, storto e contraffatto come un Esopo, bersaglio continuo delle invettive delle serve, le quali vanno ad attingere, e delle pietre e dei torsoli onde lo regalano i monelli impertinenti e democratici. Ma questo budello Mezzocannone, questo schifoso intestino napoletano, ha pur una regina. Il re è orribile; la regina è incantevole. Il re si chiamava, al tempo suo, Alfonso II d'Aragona. Ma la regina? Ella vive e regna in fin della stradicciuola. Come si chiama la regina? * * * Le prime visite che feci alla via, mosse da ragioni affatto lontane dall'interesse artistico, me la resero sempre più antipatica. Sino a pochi anni fa, al quarto piano d'uno di quegli sporchi palazzetti vecchi, c'è stata una Ricevitoria brutta e scura, nella quale, ogni due mesi, io mi recavo a pagare la tassa della fondiaria, immaginate con quanta soddisfazione dell'anima! Poi, un bel giorno, la Ricevitoria sloggiò; sloggiarono, rimossi in fretta e furia, i cancelletti di legno dai bastoni unti dalle mani dei poveri contribuenti, sloggiarono i gravi registri che chiudono tanti segreti di ristrettezze e di privazioni, sloggiò un cassiere malinconico insieme ad un piccolo gatto grigiastro, il quale annusava specie le gambe dei salumai che venivano a pagare. La Ricevitoria se n'andò e la casa rimase vuota, muta, spalancato l'uscio, sparse le camere di trucioli e di pezzetti di carta lacerata. I miei passi svegliavano un'eco breve e vibrante. Ancora sull'usciolino d'una delle stanzucce si vedeva un'addizione; i numeri erano segnati con la matita. Non avendo a fare altro collaudai l'addizione, con le mani in saccoccia e l'anima tutta dietro i miei tisici ricordi aritmetici. Il cassiere avea ragione, la somma era giusta; 14,780. Vi dirò pure, non senza una certa mortificazione, che, avendo, per una radicata superstizione napoletana, ripassati i numeri nel mio taccuino, quando scesi dalla casa abbandonata me gli andai a giocare al lotto. Naturalmente non vinsi nulla, la sfortuna mia essendo grande come la provvidenza del buon Gesù. In verità, quando mi trovo per cose mie per gusto mio particolare a scendere per una cosiffatta stradicciuola, mi si stringe l'animo. Dov'è l'azzurro, dove il sole, dove il buon sangue e la buona salute nelle persone, dove l'aria e la luce nelle case e nelle botteghe? Da pertutto penombre ed oscurità fitte, facce smunte e scolorite, in cui solamente palpitano i neri e vivi occhi napoletani, pieni di desiderii e di curiosità, tutti luminosi d'anima. Una pietà grande queste povere donne pallide, questi lavoratori di metalli, dallo sguardo lento, dalla pelle sudata, traspirante il veleno delle ebollizioni di piombo o di rame, questi tintori che si movono nell'oscurità, sotto un lumicino che pende dal soffitto, un lumicino rosso, quasi infernale. E i bambini che trascinano i piedi nudi, per la mota, i piccoli piedi indolenziti, un vecchio che cerca invano un pezzetto di sole per la sua panchetta di franfellicche, e la buia, misteriosa cantina che raccoglie tutta la gente affamata e puzzolente del quartiere, la cantina della miseria, in cui, al venerdì, il fetore del baccalà fritto nell'olio soffoca il respiro, provocando le piccole tossi dei piccini che una famiglia di straccioni porta a mangiare nell'orrida caverna. * * * Dirimpetto, l'antica fontanella mormora sempre. E par che il borbottio si parta dalla sconquassata bocca del re sovrastante, di questo ammantellato padrone della strada, e lamenti la miseria del tempo. Tutto roso dall'umido e dallo stesso tempo ingrato, che a poco a poco ha fatto di lui un personaggio da burla, vuote le occhiaie come colui della bibbia che in castigo ebbe mangiate le pupille dai vermi, l'infelice coronato pur vive ancora e concede la limpida vena dell'acqua a un popolo chiassone. L'acqua cade e si spande e allaga per buon tratto la via, commista a' nuovi rivoletti di un'altra fontanella che più in su è posta sul pendio, accanto alla bottega di un torniere—una fontanella municipale, delle solite. E però, di state e di verno la via è sempre lubrica; i pochi fanali che vengono fuori, uscendo come dalle finestre, lasciano piovere una scialba luce sul selciato sconnesso, che somiglia una disgregata sutura di un cranio in cui s'infiltrino fantastiche lacrime. E qua e là, per terra, si fanno bianche lucentezze sulle gobbe dei più gibbosi lastroni. Nel lontano, ove la strada è per finire, pende da un balconcello un fanaletto verde sul quale è scritto qualcosa in bianche lettere: Albergo del pavone. Un letto vi costa quattro soldi. Dal balconcello certo non si può aver sott'occhio un felice orizzonte; non c'è' dirimpetto eh? una scala, e in capo alla scala un immane Cristo in croce, rifatto dagli ultimi furori religiosi, dopo il colera. Nella notte, con innanzi ed ai lati alcune lampade accese, il gigantesco Cristo è vivo e terribile… La via è sempre affollata. Vi sale e scende il commercio di Porto, della Marina, della vicina strada dei Mercanti, di tutte le stradicciuole circostanti. Gli operai, intenti alla loro bisogna nelle botteghe, non levano mai lo sguardo ai passanti e continuano a lavorare fino a notte, tra il gridio del difuori e l'interno affaccendarsi per l'opera. C'è, a un posto di Mezzocannone, presso un caffettuccio, ove si giuoca a carte, una bottega di ricamatrici. Intorno al telaio, come attorno al una tavola, seggono quattro o cinque povere ragazze, curve sui ghirigori d'argento o d'oro, sui cuori di seta cremisina, sui fiori dai pistilli di conterie luccicanti. Tra costoro è una rossa pallidissima, un po' lentigginata sulla faccia di madonnina bisantina. L'oro del ricamo non ha più luce di quello dei capelli di lei, che, a volte, rischiarati da un filo di sole, si accendono. Questa è la reginella di Mezzocannone. * * * La piccola rossa, le labbra strette, gli occhi intenti, le bianchissime mani ravvicinate trapassa con l'ago la trama e non ne stacca l'attenzione, per ore ed ore. È la prima dalla parte

Tag: regina    mani    tempo    sempre    vedova    ricevitoria    presso    occhi    fontanella    

Argomenti: bersaglio continuo,    cassiere malinconico,    piccolo gatto,    pietà grande,    costa quattro

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