Mattinate napoletane di Salvatore Di Giacomo pagina 17

Testo di pubblico dominio

fare questo rimedio novello, lo spettacolo è orribile. * * * Appena entrati nel macello, come il visitatore si va accostando allo scannatoio, ode un rapido succedersi di colpi sordi, i quali danno la precisa idea di una gran quantità di tappeti sciorinati e battuti da servitori invisibili a un invisibile terrazzo. I tappeti sono cadaveri ancor palpitanti di vitelli, di vacche, di bovi smisurati. I carnefici, appena caduto l'animale sotto il coltello pugnale di questi toreadores del macello, cominciano a menar di gran colpi di mazze sulle reni e sul ventre delle bestie, perchè la pelle se ne stacchi. E mentre uno compie codesta bisogna, un altro si vale d'un mantice per gonfiare l'animale, e un altro d'un lungo ferro tondo per frugar nelle viscere. Il sangue scorre d'ogni parte e inonda il pavimento. I garzoni s'accovacciano, radunano con le mani il sangue a pezzi già quasi coagulato, riempiscono scodelle di ferro e queste rovesciano nelle botti preparate in un angolo. Tutto questo è fatto con grandissima rapidità, l'ammazzamento durando tutta la giornata e dovendo i beccai sbarazzarsi in un giorno fin di ottocento animali. Le vacche entrano malinconicamente nell'ammazzatoio. Piegano fino a terra la testa. Annusano il sangue e si volgono intorno. Un primo leggero fremito inconsciente increspa loro la pelle, gli occhi grandi e dolci s'inumidiscono. Attaccate per le corna ai pali dei cavalletti enormi, alle forche bruttate di sangue rappreso, continuano a dondolare la testa inquieta, lasciando mescolare al sangue, per terra, i fili argentei della bava, ond'hanno tutto umido il muso. Subitamente un carnefice s'accosta: nascoso il pugnaletto nella destra, guardingo. Leva la mano. Il pugnale s'abbassa, colpisce tra le corna, penetra, rapidissimo, fin nel cervello, e riappare fumante. Il carnefice dà un balzo, e si scosta. La vacca cade, fulminata. Una sola, breve convulsione le agita le gambe, ed è tutto; è morta. La sua compagna si agita, cerca di liberarsi, leva il capo, sbarra gli occhi, spaventata. Ma cade anch'essa sotto l'orribile forca, accanto alla prima. Lì per lì comincia la battitura, cominciano ad agire il soffietto, il ferro tondo, il gran coltello sventratoio. Ma prima, appena l'animale piega le gambe e si rovescia sul dosso, il fornisore di sangue, scalzo, sguazzanti i piedi nel sangue, accosta alla viva fontanella il bicchiere e, correndo, lo porta alla fanciulla anemica. E costei beve d'un subito fino all'ultimo gocciolo, e le labbra e il mento le si dipingono d'un rosso fortissimo, e le dita si sporcano, e gli anellini luccicano tra il sangue gocciante. * * * La gran parte di queste bevitrici si compone di un elemento assai borghese. Sono modistine, sartine, fioriste e simili. Escono dall'ammazzatoio con le punte delle scarpette, coi tomai alti, macchiati. In Napoli l'anemia serpeggia un po' da per tutto: ora pensate a queste povere ragazze che fanno una vita sedentaria, in un laboratorio, coi lumi a gas d'inverno; pensate a queste giovanette elegantemente vestite che a casa loro dormono in un miserabile sottoscala, senza luce; pensate alle privazioni, alla mancanza dell'aria, del sole, alla mancanza del cibo sano, della carne che costa troppo, e vi spiegherete la mancanza dei globuli rossi. * * * Ma guardatele, quando, nelle prime ore della mattina, queste fanciulle del popolo attraversano Toledo, in cappellino lucente di conterie, vestite come tante marchesine, le calze nere, di seta, lo stivalino verniciato, la punta ricamata d'un moccichino che scappa fuori dalla saccoccia in petto, la mantiglia sul braccio e l'ombrellino in mano. Son quelle che ieri han bevuto, fortemente, il sangue vivo vivo. Ora guardatele; hanno due soldi in tasca per la merenda, ma le labbra carezzano il gambo d'un fiore, o sorridono deliziosamente a un giovanotto cocchiere padronato, che sorride e minaccia con la frusta elegante… ALBA. Un ometto sbucò a un tratto nella crocevia della Dogana. Fumava certo suo mozzicone in punta alle labbra, passando la palma di una mano sul cocuzzolo, e con il pollice e l'indice dell'altra acconciando delicatamente sotto i mustacchi il mozzicone che certo gli diventava una grande voluttà in agonia. Il cappello, dalle tese spianate, gli veniva sugli occhi, e lui lasciava stare, benchè per levare il capo, come faceva, a guardar in su alle finestre, al cielo, ai muri dei palazzetti, si trovasse l'impiccio della tesa larga davanti agli occhi. Pure andava guardando, con boccacce che certo nella smorfia erano meraviglia e ammirazione. Quando lasciava il cocuzzolo, la mano gesticolava, segnando in aria sagome indeterminate e linee verticali, subito cancellate dal fumo di quel mozzicone, che sempre più si raccorciava. Di certo era qualche pittore mattiniero, che a un momento, cavati di saccoccia un albo e la matita, si mise a sedere sul primo gradino d'uno di quei palazzetti, e cominciò a sgorbiare sulla carta il balconcello di Gennaro Auriemma, armiere, che in quel punto schiacciava un bel sonno, senza mai poter supporre che ventura toccasse ai poponi suoi, dei quali aveva fatta uno festo in giro alla balaustra del balconcello, e che l'ometto ora contemplava attentamente per metterli sulla carta, insieme alla grondaia, ai vasi di maggiorana e ad una gabbia, ove una quaglia sonnecchiava. Era la via così silenziosa a quell'ora che si sentiva bene un fruscìo di una foglia secca su pei lastroni asciutti, mossa da una folata di venticello. Era l'alba. Ma quei vicoli, le stradicciuole, la piazzetta del Mercato ancora dormivano. Intanto saliva lentamente, dall'estremo lembo del mare, un chiarore infocato di sole, e il riverbero ne colorava dirimpetto le case su per la marina, mentre le vetrate s'accendevano tra quella gran pennellata rosea, che di tutte le case confondeva le linee bizzarre. In cima, altissima, una cupoletta s'arrotondava sul cielo indeciso, tutta infiammata di verde, come uno scarabeo di maiolica. Appena se ne vedeva la croce scura, sovrastante. Dal mare in calma arrivavano rumori indeterminati, voci a stesa, indefinibili. Poi, daccapo, si rifaceva il silenzio. L'ometto era tutto affaccendato a copiare, e a poco a poco l'albo s'andava coprendo di poponi e mazzi di pomidoro, mercanzia d'ogni finestrella. Nella luce che sopravveniva, apparivano chiari e scuri nuovi, mettendo lui in certe indecisioni che lo tenevano lungamente a guardare e a mormorare, mentre l'albo rimaneva aperto sopra un ginocchio e la punta della matita gli solleticava la cute, fra i capelli. —Oh! oh!—fece, a un tratto. Adocchiava una tettoia, sotto la quale si ammonticchiavano bombole d'acqua solfurea, accosto a una fontanella: un quadrettino. Rifece la punta della matita, cercò una pagina bianca, e lì per lì cominciarono a passare all'albo le bombole. Le stradicciuole rimanevano deserte e silenziose. L'ometto tutto solo e intento, in quella sua posizione di scimmietta, era strano. Poi gli passò accosto un'altra cosa viva, un ratto, che pareva un micino, tanto era grosso. Era uscito da una feritoia, guardando nella via con gli occhietti lucenti. E come l'ometto si chinava a strofinare sul selciato la matita per agguzzarla, la bestiola ricacciò dentro il corpo nella feritoia. Si vedevano solo i mustacchi e il musetto. Infine si fece coraggio, venne fuori e cercò rapidamente in un monticello di sudiciume. La testina, che aveva movimenti veloci, frugava in furia, levandosi dai rifiuti, dai torsoli, dalle bucce, a guardare, sospettosamente. Infine, quand'ebbe finito, il ratto se ne andò ripassando innanzi all'ometto. Lui non lo vide, e seguitò a schizzar bombole in santa pace. La penombra si diradava in fondo ai vicolucci; nel lontano appariva chiaramente la tortuosità delle stradicciuole; si dileguavano panche e carrettini abbandonati, e laggiù, ove addirittura il vicolo delle Fate terminava, all'angolo, sulla cantina Maranese, un ramo fronzuto s'affacciava, tutto verde, di sotto all'insegna. Improvvisamente, nel vicolo, una

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Argomenti: lungo ferro,    ferro tondo,    leggero fremito,    breve convulsione,    sangue vivo

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