Giambi ed Epodi di Giosuè Carducci pagina 9

Testo di pubblico dominio

digrignava un sorrisetto. Tutt'a un tratto quel movente di maligni ossami stuolo Scricchiolando e sgretolando si levò per l'aria a volo; Ed intorno a l'orifiamma dispiegante i gigli gialli Sgambettando e cianchettando intessea carole e balli, Ed intorno a l'orifiamma sventolante i gigli d'oro Sibilando e bofonchiando intonava questo coro. – Ben ne venga il delfin grigio nel reame ove a' Borboni Né pur morte guarentisce fide o pie le sue magioni. Passerem dal Ponte Nuovo. Venga a sciôr la sua promessa Co 'l re grande che Parigi guadagnò per una messa, E nel marmo anche par senta co' mustacchi intirizziti Caldo il colpo e freddo il ghiaccio del pugnal de' gesuiti. Marceremo a Nostra Donna. Mitriati e porporati Tre arcivescovi i lor sonni per accoglierne han lasciati. Su l'entrata sta solenne con l'asperges d'oro in pugno Quel che tinse del suo sangue gli arsi lastrici di giugno. In disparte ginocchioni veglia a dire le secrete Quel che spento fu in sacrato per le mani d'un suo prete. Benedice la corona del figliuol di San Luigi Quel che giacque sotto il piombo del comune di Parigi. Tristi cose. Al men tuo padre (son cortesi i giacobini) Nel palchetto d'un teatro morì al suon de' violini. Coprì l'onda de l'orchestra la real confessione, Salì Cristo in sacramento tra le maschere al veglione. Farem gala a quel teatro noi borbonica tregenda: Da quel palco (Iddio ti salvi!) muove, o re, la tua leggenda. – Così strilla sghignazzando via pe'l grigio aere la scorta. Ma cavalca il quinto Enrico dritto e fermo in vèr la porta. Su la porta di Parigi co 'l bacile d'oro in mano A l'omaggio de le chiavi sta parato un castellano. Ei non guarda, non fa cenno di saluto, non procede: Un'antica e fatal noia su le grosse membra siede. Erto il capo e 'l guardo teso, ma l'orgoglio non vi raggia: Una tenue per il collo striscia rossa gli viaggia. Non pare ordine o collare che il re doni al suo fedele: Non è quel di San Luigi, non è quel di San Michele. Al passar d'Enrico, ei muove a test'alta e regalmente; Fende in mezzo il gran corteggio: ciascun vede e niun lo sente. È a la staffa già d'Enrico; ma non piega ad atto umìle, E tien dritto e fermo il collo mentre leva su il bacile. – Ben ne venga mio nipote, l'ultim'uom de la famiglia! Queste chiavi ch'io ti porgo fur catene a la Bastiglia. Tali al Tempio io le temprava. – Con l'offerta fa l'inchino Ed il capo de l'offrente rotolava nel bacino; Ed il capo di Luigi con l'immobile occhio estinto Boccheggiante nel bacino riguardava Enrico quinto. XXIX
A PROPOSITO DEL PROCESSO FADDA I Da i gradi alti del circo ammantellati Di porpora, esse ritte Ne i lunghi bissi, gli occhi dilatati Le pupille in giù fitte, Abbassavano il pollice nervoso De la mano gentile. Ardea tra bianche nuvole estuoso Il sol primaverile Su le superbe, e ne la nera chioma Mettea lampeggiamenti. Fremea la lupa nutrice di Roma Ne i lor piccoli denti, Bianchi, affilati, tra le labbra rosse Contratte in fiero ghigno. Un selvatico odor su da le fosse Vaporava maligno. Era il sangue del mondo che fervea Con lievito mortale, Su cui provava già Nemesi dea Al vol prossimo l'ale. E le nipoti di Camilla, pria Di cedere le mani A i ferri, assaporavan l'agonia De' cerulei Germani. II Voi sgretolate, o belle, i pasticcini Tra il palco e la galera; Ed intente a fornir di cittadini La nuova italica èra, Studiate, e gli occhi mobili dan guizzi Di feroce ideale, Gli abbracciamenti de' cavallerizzi Tra i colpi di pugnale; E palpate con gli occhi abbracciatori Le schiene ed i toraci, Mentre rei gerghi tra sucidi odori Testimonian su i baci. Poi, se un puttin di marmo avvien che mostri Qualcosellina al sole, Protesterete con furor d'inchiostri, Con fulmin di parole. E pur ieri cullaste il figliuoletto Tra i notturni fantasmi Co 'l piè male proteso fuor del letto Ne gli adulteri spasmi. Ma voi siete cristiane, o Maddalene! Foste da' preti a scuola. Siete moderne! avete ne le vene L'Aretino e il Loiola. XXX
IL CANTO DELL'AMORE Oh bella a' suoi be' dì Rocca Paolina Co' baluardi lunghi e i sproni a sghembo! La pensò Paol terzo una mattina Tra il latin del messale e quel del Bembo. – Quel gregge perugino in tra i burroni Troppo volentier – disse – mi si svia. Per ammonire, il padre eterno ha i tuoni, Io suo vicario avrò l'artiglieria. Coelo tonantem canta Orazio, e Dio Parla tra i nembi sovra l'aquilon. Io dirò co' i cannoni: O gregge mio, Torna a i paschi d'Engaddi e di Saron. Ma, poi che noi rinnovelliamo Augusto, Odi, Sangallo: fammi tu un lavoro Degno di Roma, degno del tuo gusto, E del ponteficato nostro d'oro. – Disse; e il Sangallo a la fortezza i fianchi Arrotondò qual di fiorente sposa: Gittolle attorno un vel di marmi bianchi, Cinse di torri un serto a l'orgogliosa. La cantò il Molza in distici latini; E il paracleto ne la sua virtù Con più che sette doni a i perugini In bombe e da' mortai pioveva giù. Ma il popolo è, ben lo sapete, un cane, E i sassi addenta che non può scagliare, E specialmente le sue ferree zane Gode ne le fortezze esercitare; E le sgretola; e poi lieto si stende Latrando su le pietre ruinate, Fin che si leva e a correr via riprende Verso altri sassi ed altre bastonate. Così fece in Perugia. Ove l'altera Mole ingombrava di vasta ombra il suol Or ride amore e ride primavera, Ciancian le donne ed i fanciulli al sol. E il sol nel radiante azzurro immenso Fin de gli Abruzzi al biancheggiar lontano Folgora, e con desio d'amor più intenso Ride a' monti de l'Umbria e al verde piano. Nel roseo lume placidi sorgenti I monti si rincorrono tra loro, Sin che sfumano in dolci ondeggiamenti Entro i vapori di viola e d'oro. Forse, Italia, è la tua chioma fragrante Nel talamo, tra' due mari, seren, Che sotto i baci de l'eterno amante Ti freme effusa in lunghe anella al sen? Io non so che si sia, ma di zaffiro Sento ch'ogni pensiero oggi mi splende, Sento per ogni vena irmi il sospiro Che fra la terra e il ciel sale e discende. Ogni aspetto novel con una scossa D'antico affetto mi saluta il core, E la mia lingua per sé stessa mossa Dice a la terra e a al cielo, Amore, amore. Son io che il cielo abbraccio, o da l'interno Mi riassorbe l'universo in sé?... Ahi, fu una nota del poema eterno Quel ch'io sentiva e picciol verso or è. Da i vichi umbri che foschi tra le gole De l'Apennino s'amano appiattare; Da le tirrene acròpoli che sole Stan su i fioriti clivi a contemplare; Da i campi onde tra l'armi e l'ossa arate La sventura di Roma ancor minaccia; Da le ròcche tedesche appollaiate Sì come falchi a meditar la caccia; Da i palagi del popol che sfidando Surgon neri e turriti incontro a lor; Da le chiese che al ciel lunghe levando Marmoree braccia pregano il Signor; Da i borghi che s'affrettan di salire Allegri verso la cittade oscura, Come villani ch'hanno da partire Un buon raccolto dopo mietitura; Da i conventi tra i borghi e le cittadi Cupi sedenti al suon de le campane Come cucùli tra gli alberi radi Cantanti noie ed allegrezze strane; Da le vie, da le piazze gloriose, Ove, come del maggio ilare a i dì Boschi di querce e cespiti di rose, La libera de' padri arte fiorì; Per le tenere verdi mèssi al piano, Pe' vigneti su l'erte arrampicati, Pe' laghi e' fiumi argentei lontano, Pe' boschi sopra i vertici nevati, Pe' casolari al sol lieti fumanti Tra stridor di mulini e di gualchiere, Sale un cantico solo in mille canti, Un inno in voce di mille preghiere: – Salute, o genti umane affaticate! Tutto trapassa e nulla può morir. Noi troppo odiammo e sofferimmo. Amate. Il mondo è bello e santo è l'avvenir. – Che è che splende su da' monti, e in faccia Al sole appar come novella aurora? Di questi monti per la rosea traccia Passeggian dunque le madonne ancora? Le madonne che vide il Perugino Scender ne' puri occasi de

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