Giambi ed Epodi di Giosuè Carducci pagina 8

Testo di pubblico dominio

mia gualdrappare Di stil manzoniano, E recitar l'uffizio militare D'Edmondo il capitano Per non cader in tentazion. La prosa Di Paulo Fambri, il grosso Voltèr de le lagune, è spiritosa Troppo per il mio dosso: Gli analfabeti miei, che la lettura Di poco han superato, Preferiscon d'assai la dicitura Più svelta del cognato. E così d'anno in anno, e di ministro In ministro, io mi scarco Del centro destro su 'l centro sinistro, E 'l mio lunario sbarco: Fin che il Sella un bel giorno, al fin del mese, Dato un calcio a la cassa, Venda a un lord archeologo inglese L'augusta mia carcassa. XXIII
GIUSEPPE MAZZINI Qual da gli aridi scogli erma su 'l mare Genova sta, marmoreo gigante, Tal, surto in bassi dì, su 'l fluttuante Secolo, ei grande, austero, immoto appare. Da quelli scogli, onde Colombo infante Nuovi pe 'l mar vedea mondi spuntare, Egli vide nel ciel crepuscolare Co 'l cuor di Gracco ed il pensier di Dante La terza Italia; e con le luci fise A lei trasse per mezzo un cimitero, E un popol morto dietro a lui si mise. Esule antico, al ciel mite e severo Leva ora il volto che giammai non rise, – Tu sol – pensando – o ideal, sei vero. XXIV
ALLA MORTE DI GIUSEPPE MAZZINI Quando – Egli è morto – dissero, Io, che qui sola eterna Credo la morte, un fremito Correr sentii l'interna Vita ed al cuore assiderarmi un gel. Immortal lui credeva. E gli occhi torbidi Volsi, chiedendo e dubitando, al ciel. Ei che d'Italia a l'anime Fu quel ch'a i corpi il sole, Del quale udiva io parvolo Mirabili parole Sì come d'un fatidico Spirito tra il passato e l'avvenir, Egli il cui nome appresermi Con quei d'Italia, ei non potea morir. Guardai. D'Italia stavano Le ville i templi i fòri, Da le sue torri a l'aure Splendeano i tre colori, Fremeano i fiumi i popoli Ed i pensier con onda alterna, il sol Rideva a l'alpi al doppio mare a l'isole Come pur ieri... Ed era morto ei sol. Passato era de i secoli Nel dì trasfigurante, A i mondi onde riguardano Camillo e Gracco e Dante, Grandi ombre con immobili Occhi di stelle a le fluenti età, E riposa Cristoforo Colombo e Galileo contempla e sta. .................... XXV
A UN HEINIANO D'ITALIA Quando a i piaceri in mezzo od a i tormenti Arrigo Heine crollava La bionda chioma ed a i tedeschi venti Le sue strofe gittava, E le furie e le grazie de la prosa Folli feroci e schiette Ei liberava da la man nervosa Qual gruppo di saette, L'ombra del suo pensiero, ombra di morte, Da i suon balzava fuora, E con la scure in man battea le porte Gridando – È l'ora, è l'ora! – Dal viso del poeta atroce e bello Pendea, ridendo, il dio Thor, e chiedea, brandendo il gran martello, – Ch'io picchi, o figliuol mio? Sotto il vento de' cantici immortali Piegavano croscianti Le selve de le vecchie cattedrali Con le lor guglie e i santi: Rintoccava, da i culmini ondeggiando, A morto ogni campana, E Carlo Magno s'avvolgea tremando Nel lenzuol d'Aquisgrana. Quando toccate, o tisicuzzo, voi Il chitarrin cortese, Mugghian d'assenso tutti i serbatoi Del mio dolce paese. Le canzonette, assettatuzze e matte, Ed isgrammaticate Borghesemente, fan cagliare il latte E tremar le giuncate. Deh, come erra fantastico il belato Vostro via per l'acerba Primavera! O montone, al prato, al prato! O agnello, a l'erba, a l'erba! Il garofolo giallo e la viola Vi sorridon gl'inviti: Ah ghiottoncello, a voi fanno più gola I cavoli fioriti? Brucate, ruminate, meriggiate E belate a i pastori; E, se potete, i bei cornetti armate Pe' i lascivetti amori. Con due scambietti poi l'ebete grifo Ponete, oh voi beato!, Su le ginocchia a Cloe, se non ha schifo Del puzzo di castrato: XXVI
PER IL QUINTO ANNIVERSARIO DELLA BATTAGLIA DI MENTANA Ogni anno, allor che lugubre L'ora de la sconfitta Di Mentana su' memori Colli volando va, I colli e i pian trasalgono E fieramente dritta Su i nomentani tumuli La morta schiera sta. Non son nefandi scheletri; Sono alte forme e belle, Cui roseo dal crepuscolo Ondeggia intorno un vel: Per le ferite ridono Pie le virginee stelle, Lievi a le chiome avvolgonsi Le nuvole del ciel. – Or che le madri gemono Sovra gl'insonni letti, Or che le spose sognano Il nostro spento amor, Noi rileviam dal Tartaro I bianchi infranti petti, Per salutarti, o Italia, Per rivederti ancor. Qual ne l'incerto tramite Gittava il cavaliero Il verde manto serico De la sua donna al piè, Per te gittammo l'anima Ridenti al fato nero; E tu pur vivi immemore Di chi moria per te. Ad altri, o dolce Italia, Doni i sorrisi tuoi; Ma i morti non obliano Ciò che più in vita amâr; Ma Roma è nostra, i vindici Del nome suo siam noi: Voliam su 'l Campidoglio, Voliamo a trionfar. – Va come fósca nuvola La morta compagnia, E al suo passare un fremito Gl'itali petti assal; Ne le auree veglie tacciono La luce e l'armonia, E sordo il tuon rimormora Su l'alto Quirinal. Ma i cavalier d'industria, Che a la città di Gracco Trasser le pance nitide E l'inclita viltà, Dicon – Se il tempo brontola, Finiam d'empire il sacco; Poi venga anche il diluvio: Sarà quel che sarà. XXVII
A MESSER CANTE GABRIELLI DA GUBBIO
PODESTÀ DI FIRENZE NEL MCCCI Molto mi meraviglio, o messer Cante, Podestà venerando e cavaliero, Non v'abbia Italia ancor piantato intiero In marmo di Carrara e dritto stante Sur una piazza, ove al bel ceffo austero Vostro passeggi il popolo d'avante, O primo, o solo ispirator di Dante, Quando ladro il dannaste e barattiero. I ceppi per a lui la man tagliare Voi tenevate presti; ei ne l'inferno Scampò, gloria e vendetta a ricercare. Spongon or birri e frati il suo quaderno, E quel povero veltro ha un bel da fare A cacciar per la chiesa e pe 'l governo. XXVIII
LA SACRA DI ENRICO QUINTO Quando cadono le foglie, quando emigrano gli augelli E fiorite a' cimiteri son le pietre de gli avelli, Monta in sella Enrico quinto il delfin da' capei grigi, E cavalca a grande onore per la sacra di Parigi. Van con lui tutt'i fedeli, van gli abbati ed i baroni: Quanta festa di colori, di cimieri e di pennoni! Monta Enrico un caval bianco, presso ha il bianco suo stendardo Che coprì morenti in campo San Luigi e il pro' Baiardo. Viva il re! Ma il ciel di Francia non conosce il sacro segno; E la seta vergognosa si ristringe intorno al legno. Più che mai su gli aurei gigli bigio il cielo e freddo appare: Con la pace de gli scheltri stanno gli alberi a guardare; E gli augelli, senza canto, senza rombo, tristi e neri, Guizzan come frecce stanche tra i pennoni ed i cimieri. Viva il re! Ma i lieti canti ne le trombe e ne le gole Arrochiscono ed aggelano su le bocche le parole. Arrochiscono; ed un rantolo faticoso d'agonia Par che salga su dai petti de l'allegra compagnia. Cresce l'ombra de le nubi, si distende su la terra, Ed un'umida tenèbra quel corteggio avvolge e serra. Dan di sprone i cavalieri, i cavalli springan salti: Sotto l'ugne percotenti suon non rendono i basalti. Manca l'aria; e, come attratti i cavalli e le persone Ne la plumbea d'un sogno infinita regione, Arrembando ed arrancando per gli spazi sordi e bigi Marcian con le immote insegne per entrar a San Dionigi. Viva il re! Giù da i profondi sotterranei de la chiesa Questa voce di saluto come un brontolo fu intesa: E da l'ossa che in quei campi la repubblica disperse Una nube di fumacchi si formava, e fuori emerse Uno stuolo di fantasmi: donne, pargoli, vegliardi, Conti, vescovi, marchesi, duchi, monache, bastardi; Tutti principi del sangue: tronchi, mózzi, cincischiati, I zendadi a fiordiligi stranamente avvoltolati. Entro i teschi aguzzi e mondi che parean d'avorio fino Luccicavano le occhiaie d'un sottil fuoco azzurrino. Qual brandiva, salutando, un cappel bianco piumato Con un gracil moncherino che solo eragli avanzato; Qual con una tibia sola disegnava un minuetto; Qual con mezza una mascella

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Argomenti: grande onore,    san luigi,    campo san,    centro destro,    archeologo inglese

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