Novelle rusticane di Giovanni Verga pagina 8

Testo di pubblico dominio

fatto: ma chi ci vinse l'ambo fu solo la gnà Venera. Anzi ci avrebbe preso il terno se ci metteva anche il sangue che si era trovato nella piazzetta, poiché mastro Cola annaspando e barcollando era andato a cascare giusto nel punto dove l'anno prima aveva fatto il ladro del Mistero. Però la gnà Venera dovette spatriare dal paese, perché nessuno gli comperava più il pane del panchetto, e la chiamavano "la scomunicata". Compare Nanni, anche lui durò un pezzo a scappare di qua e di là, per le sciare e le chiuse, ma alla prima fame dell'inverno lo avevano acchiappato di notte vicino alle prime case del paese, dove aspettava il ragazzo che soleva portargli il pane di nascosto. Gli fecero il processo e se lo portarono di là del mare, col marito di comare Filippa. Anche lui, se non avesse pensato di mettersi la gonnella della "scomunicata" per fare la Beata Vergine! Malaria E' vi par di toccarla colle mani - come della terra grassa che fumi, là, dappertutto, torno torno alle montagne che la chiudono, da Agnone al Mongibello incappucciato di neve - stagnante nella pianura, a guisa dell'afa pesante di luglio. Vi nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera, e l'estate arsa; e vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell'autunno, e il fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche, slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle sponde piatte, senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile. Sul greto pascolano svogliatamente i buoi, rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto. Quando risuona il campanaccio della mandra, nel gran silenzio, volan via le cutrettole, silenziose, e il pastore istesso, giallo di febbre, e bianco di polvere anche lui, schiude un istante le palpebre gonfie, levando il capo all'ombra dei giunchi secchi. È che la malaria v'entra nelle ossa col pane che mangiate, e se aprite bocca per parlare, mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e di sole, e vi sentite mancar le ginocchia, o vi accasciate sul basto della mula che va all'ambio, colla testa bassa. Invano Lentini, e Francofonte, e Paternò, cercano di arrampicarsi come pecore sbrancate sulle prime colline che scappano dalla pianura, e si circondano di aranceti, di vigne, di orti sempre verdi; la malaria acchiappa gli abitanti per le vie spopolate, e li inchioda dinanzi agli usci delle case scalcinate dal sole, tremanti di febbre sotto il pastrano, e con tutte le coperte del letto sulle spalle. Laggiù, nella pianura, le case sono rare e di aspetto malinconico, lungo le strade mangiate dal sole, fra due mucchi di concime fumante, appoggiate alle tettoie crollanti, dove aspettano coll'occhio spento, legati alla mangiatoia vuota, i cavalli di ricambio. - O sulla sponda del lago, colla frasca decrepita dell'osteria appesa all'uscio, le grandi stanzaccie vuote, e l'oste che sonnecchia accoccolato sul limitare, colla testa stretta nel fazzoletto, spiando ad ogni svegliarsi, nella campagna deserta, se arriva un passeggiero assetato. - Oppure come cassette di legno bianco, impennacchiate da quattro eucalipti magri e grigi, lungo la ferrovia che taglia in due la pianura come un colpo d'accetta, dove vola la macchina fischiando al pari di un vento d'autunno, e la notte corruscano scintille infuocate. - O infine qua e là, sul limite dei poderi segnato da un pilastrino appena squadrato, coi tetti appuntellati dal di fuori, colle imposte sconquassate, dinanzi all'aia screpolata, all'ombra delle alte biche di paglia dove dormono le galline colla testa sotto l'ala, e l'asino lascia cascare il capo, colla bocca ancora piena di paglia, e il cane si rizza sospettoso, e abbaia roco al sasso che si stacca dall'intonaco, alla lucertola che striscia, alla foglia che si muove nella campagna inerte. La sera, appena cade il sole, si affacciano sull'uscio uomini arsi dal sole, sotto il cappellaccio di paglia e colle larghe mutande di tela, sbadigliando e stirandosi le braccia; e donne seminude, colle spalle nere, allattando dei bambini già pallidi e disfatti, che non si sa come si faranno grandi e neri, e come ruzzeranno sull'erba quando tornerà l'inverno, e l'aia diverrà verde un'altra volta, e il cielo azzurro e tutt'intorno la campagna riderà al sole. E non si sa neppure dove stia e perché ci stia tutta quella gente che alla domenica corre per la messa alle chiesuole solitarie, circondate dalle siepi di fichidindia, a dieci miglia in giro, sin dove si ode squillare la campanella fessa nella pianura che non finisce mai. Però dov'è la malaria è terra benedetta da Dio. In giugno le spighe si coricano dal peso, e i solchi fumano quasi avessero sangue nelle vene appena c'entra il vomero in novembre. Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura, perché il Signore ha detto: "Il pane che si mangia bisogna sudarlo". Come il sudore della febbre lascia qualcheduno stecchito sul pagliericcio di granoturco, e non c'è più bisogno di solfato né di decotto d'eucalipto, lo si carica sulla carretta del fieno, o attraverso il basto dell'asino, o su di una scala, come si può, con un sacco sulla faccia, e si va a deporlo alla chiesuola solitaria, sotto i fichidindia spinosi di cui nessuno perciò mangia i frutti. Le donne piangono in crocchio, e gli uomini stanno a guardare, fumando. Così s'erano portato il camparo di Valsavoia, che si chiamava Massaro Croce, ed erano trent'anni che inghiottiva solfato e decotto d'eucalipto. In primavera stava meglio, ma d'autunno, come ripassavano le anitre, egli si metteva il fazzoletto in testa, e non si faceva più vedere sull'uscio che ogni due giorni; tanto che si era ridotto pelle ed ossa, e aveva una pancia grossa come un tamburo, che lo chiamavano il Rospo anche pel suo fare rozzo e selvatico, e perché gli erano diventati gli occhi smorti e a fior di testa. Egli diceva sempre prima di morire: - Non temete, che pei miei figli il padrone ci penserà! - E con quegli occhiacci attoniti guardava in faccia ad uno ad uno coloro che gli stavano attorno al letto, l'ultima sera, e gli mettevano la candela sotto il naso. Lo zio Menico, il capraio, che se ne intendeva, disse che doveva avere il fegato duro come un sasso e pesante un rotolo e mezzo. Qualcuno aggiungeva pure: - Adesso se ne impipa! ché s'è ingrassato e fatto ricco a spese del padrone, e i suoi figli non hanno bisogno di nessuno! Credete che l'abbia preso soltanto pei begli occhi del padrone tutto quel solfato e tutta quella malaria per trent'anni? Compare Carmine, l'oste del lago, aveva persi allo stesso modo i suoi figliuoli tutt'e cinque, l'un dopo l'altro, tre maschi e due femmine. Pazienza le femmine! Ma i maschi morivano appunto quando erano grandi, nell'età di guadagnarsi il pane. Oramai egli lo sapeva; e come le febbri vincevano il ragazzo, dopo averlo travagliato due o tre anni, non spendeva più un soldo, né per solfato né per decotti, spillava del buon vino e si metteva ad ammannire tutti gli intingoli di pesce che sapeva, onde stuzzicare l'appetito al malato. Andava apposta colla barca a pescare la mattina, tornava carico di cefali, di anguille grosse come il braccio, e poi diceva al figliuolo, ritto dinanzi al letto e colle lagrime agli occhi: - Te'! mangia! - Il resto lo pigliava Nanni, il carrettiere per andare a venderlo in città. - Il lago vi dà e il lago vi piglia! - Gli diceva Nanni, vedendo piangere di nascosto compare Carmine. - Che volete farci, fratel mio? - Il lago gli aveva dato dei bei guadagni. E a Natale, quando le anguille si vendono bene, nella casa in riva al lago, cenavano allegramente dinanzi al fuoco, maccheroni, salsiccia e ogni ben di Dio, mentre il vento urlava di fuori come un lupo che abbia fame e freddo. In tal modo coloro che restavano si consolavano dei morti. Ma a poco a poco andavano

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