Sodoma e Gomorra di Docteur Jaf

Testo di pubblico dominio

I. La corruzione nell'antichità —— Nell'antica culla delle società bisogna cercare le prime tracce del vizio, in Caldea, nella Babilonia che è stato il più intenso focolaio di corruzione. La leggenda biblica c'insegna che poco tempo dopo la creazione del mondo, il Signore irritato dalla perversità degli uomini, fu tentato di distruggerlo novamente. Il diluvio venne a purgare la terra, ma la corruzione riapparve, e gli uomini, aumentandosi ed estendendosi, non fecero che spargerla e diffonderla. Il vizio era personificato dal culto di Venere, la quale a Babilonia era adorata sotto il nome di Militta. Il profeta Baruch si lamentava con Geremia sulla turpitudine dei tempi; Geremia nella sua lettera agli ebrei due il re Nabuchodonosor aveva condotti in cattività a Babilonia, diceva: «Alcune donne sono sedute al limite delle strade e bruciano profumi. Quando una di esse, attirata da qualche passante, ha trascorso la notte con lui, rimprovera alla sua vicina di non essere stata giudicata degna, come lei, di essere posseduta da quell'uomo e di non aver saputo rompere la sua cintura di corde». Questa cintura di corde, questi nodi che circondavano il corpo della donna votata a Venere, rappresentavano il pudore, il qual la riteneva con un fragilissimo legame, e che l'amore impetuoso doveva al più presto rompere. Quinto Curzio e gli storici del vincitore di Babilonia, affermano che perfino Alessandro il Grande fu spaventato dal libertinaggio della grande città: «Non vi è popolo più corrotto di questo, diceva, nè di questo più sapiente nell'arte dei piaceri e delle voluttà... I Babiloniesi si affogano soprattutto nell'ubbriachezza e nei disordini che ne conseguono. Le donne dapprima si presentano ai banchetti modestamente, ma poco a poco si liberano delle vesti, si spogliano da qualunque pudore fino a restare completamente nude. E non solo le donne pubbliche si abbandonano in tal modo, ma financo le dame della migliore società con le loro figliuole». In Armenia, Venere, sotto il nome di Anaitide aveva un tempio circondato da un vasto dominio, nel quale viveva rinchiusa tutta una popolazione consacrata ai riti della dea. Solo gli stranieri erano ammessi in questo serraglio di ambo i sessi, per chiedervi una galante ospitalità che non veniva mai rifiutata. I serventi e le serventi di tal luogo erano i figli e le figlie delle migliori famiglie del paese; entravano al servizio della dea per un tempo più o meno lungo, secondo i voti dei loro genitori. In Siria, a Heliopolis, si adorava Venere e Adone rappresentati da una sola statua. Gli stravizii più infami avevano luogo in talune feste in cui gli uomini travestiti da donne e le donne travestite da uomini si abbandonavano a tutti gli eccessi, donde nascevano figlie che non conoscevano mai i loro padri, e che venivano a loro volta, sin dalla più tenera giovinezza, a ritrovare le loro madri nei misteri della dea. A Pafo la dea era rappresentata da un cono in pietra bianca (Konnus, da cui si è fatto poi c...). Il culto di Venere si sparse da Cipro nella Fenicia, a Cartagine e su tutta la costa africana. La Bibbia dice che i tempii di Cartagine come quelli di Sidona e di Ascalona erano circondati da tende, sotto le quali le Cartaginesi si consacravano a Venere fenicia. S. Agostino ha precisato i principali caratteri del culto di Venere, constatando che vi erano tre Veneri in luogo di una: Quella delle Vergini, quella delle donne maritate e quella delle Cortigiane, dea impudica—dice egli—a cui la Fenicia immolava il pudore delle sue figlie prima che si maritassero. Tutta l'Asia Minore aveva abbracciato con entusiasmo un culto, il quale deificava i sensi e gli appetiti carnali. I Lidii, soggiogati dai Persi, comunicarono ai proprii vincitori i loro vizii. Questi Lidii che avevano nelle loro armate una folla di ballerine e di musicisti meravigliosamente, esercitati nell'arte della voluttà, appresero ai Persi ad avere in grande considerazione simili donne che sonavano la lira, il tamburo ed il flauto. La musica divenne allora il pungolo del libertinaggio e non si davano grandi pranzi, nei quali l'ebbrezza e gli stravizii non fossero sollecitati dal suono degl'istrumenti, da canti osceni e dalle lascive danze delle cortigiane. Questo vergognoso spettacolo, questo preludio dell'orgia sfrenata, gli antichi Persi non lo risparmiavano nemmeno agli sguardi delle loro mogli e delle loro figlie, che pigliavano parte ai festini senza velo e coronate di fiori. Riscaldate dal vino, animate dalla musica, queste vergini, queste matrone, perdevano ogni contegno, e con la coppa in mano accettavano, scambiavano, provocavano le sfide più disoneste in presenza dei rispettivi padri, mariti, fratelli e figli. Le età, i sessi, le condizioni si confondevano sotto l'impero della vertigine generale; i canti, i gridi, le danze raddoppiavano, ed il pudore, pel quale nè occhi nè orecchie erano rispettati, fuggiva nascondendosi sotto le pieghe del suo velo. I banchetti e gl'intermezzi si prolungavano in tal modo fino a che l'aurora faceva impallidire le torce e che i convitati seminudi, cadevano l'un sull'altro addormentati nei letti di argento e di avorio. L'Egitto adorava Iside, il cui culto misterioso ricordava con una folla di allegorie la parte che rappresenta la donna o la natura feminile nell'universo. In quanto al suo sposo Osiride, era l'emblema della natura feminile. Il Bue e la Vacca erano dunque i simboli di Osiride e di Iside; i sacerdoti e le sacerdotesse portavano nelle cerimonie il Van mistico che riceveva il grano e la crusca, ma che conservava il primo rigettando il secondo; i sacerdoti portavano ancora il Tau sacro, o la chiave che apriva le serrature meglio custodite. Vi erano ancora l'occhio, con o senza sopracciglie, che si situava accanto al Tau negli attributi di Osiride, per simulare i rapporti dei due sessi. Alle processioni di Iside, le ragazze consacrate reggevano il Cyste mistico, ceste di giunchi contenenti dolciumi ovali e bucati nel mezzo, simili a ciambelle; accanto ad esse una sacerdotessa nascondeva nel seno un'urna di oro, nella quale era conservato il Phallus, definito da Apollo: «L'adorabile immagine della divinità suprema e l'istrumento dei più secreti misteri». È evidente che in un simile culto l'opera della carne era considerata come avente il primo posto sopra tutte le cose, e per conseguenza i sacerdoti usavano del loro prestigio, e s'incaricavano d'iniziare ad infami stravizii i neofiti dei due sessi. Il vizio e la corruzione presso questo popolo era arrivato ad un tal punto, che non si davano agli imbalsamatori i corpi delle giovani se non tre o quattro giorni dopo morte, per tema che non abusassero dei cadaveri. I libri santi sono pieni di passaggi che ci indicano i quadrivi delle strade che servivano da campi di fiera alle lussuriose. È vero che queste donne non erano ebree, almeno la maggioranza, giacchè la scrittura le qualifica per straniere. Il soggiorno degli Ebrei in Egitto, dove i costumi erano depravatissimi, pervertì considerevolmente i loro. Mosè, questo savio legislatore, lasciò agli Israeliti per prudenza la libertà di aver commercio con donne straniere, ma fu implacabile contro i delitti di bestialità e di sodomia. La maggior parte dei luoghi infami erano diretti da stranieri, per lo più sirii, le donne che li frequentavano erano anche sirie, giacchè Mosè proibiva assolutamente la prostituzione alle donne Israelite. Nondimeno i vizii più vergognosi infestavano il popolo di Dio. Il profeta Ezechiel ci dà una pittura spaventevole della corruzione ebrea; nelle sue terribili profezie non parla che di cattivi luoghi aperti al primo venuto, di tende da donnaccie piantate su tutti i cammini, di case scandalose ed impudiche; non vi si scorgono che cortigiane vestite di seta e di merletti scintillanti di gioielli, profumate da capo a piedi; non si contemplano che scene infami di fornicazioni. Presso i Greci, e più tardi presso i Romani,

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Argomenti: intenso focolaio,    migliore società,    galante ospitalità,    grande considerazione,    culto misterioso

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