Le rimembranze di Giacomo Leopardi

Testo di pubblico dominio

Idillio Era in mezzo del ciel la curva luna, E di Micon la povera capanna Sol piccola da un lato ombra spandea. Chino sul destro braccio, ed appoggiando Alle ginocchia il cubito, dell'uscio Sul facile gradin sedea Micone. Egli era triste, e muto. Il tenerello Dameta il figliuolin, che ad ogni istante Temea la mamma udir chiamarlo al sonno, Scherzavagli d'intorno, e saltellando La mano gli prendeva, e or d'una cosa Or d'altra il ricercava: un panierino Mostravagli talor da lui tessuto, Talor raccolto un fresco fior, talora Nella socchiusa man lucido insetto Sorpreso in aria da sagace colpo: E il rimirava in faccia, e avidamente Plauso chiedea col guardo, e col sorriso. Quel, serio, e taciturno a stento ai detti, O a fuggitivo riso i labbri apriva. Alfin proruppe: MICONE O amabile Dameta, Dì, figlio mio, del tuo maggior fratello Non ti ricordi tu? più non rammenti Il tuo Filino? Ei t'ha lasciato, e un anno È che nol vedi più. Le prime rose Spuntavano, com'or, su quella fratta, Quando, i suoi giuochi abbandonati, il vidi Seder pallido, e muto. Io gli chiedea: Figlio, perchè qui sei? perchè non giuochi? Perchè non vai con tuo fratello al prato? Su scendi a sollazzarti. Hai forse male? No, padre, ei mi dicea, no, nulla io sento, Ma stanco io sono, e qui riposo; or ora Tornerò con Dameta a trastullarmi. Così sempre ei dicea, ma sempre il male Più gli apparia sul viso. Un dì di Festa Alfine ei si levò l'estrema volta, Poi più non sorse. Oh come, allor che a casa La sera mi vedea tornar dal campo, Lieto in chiamarmi mi tendea le mani, E la mia mi baciava, e mi chiedea Se stanco fossi, e sempre a sè vicino M'avria voluto. Un giorno alfin (dimani Quel dì funesto riconduce il sole) Mi levai, corsi a lui, chino sul letto Gli diedi un bacio, e come stasse il chiesi. Ei più non rispondea: l'occhio mi volse Cui luccicante lacrima copria: Ma nulla dir potè, più non dischiuse Il moribondo labbro. Un opportuno Rimedio al male, il vecchio Alcon, quel Saggio, Cui sì spesso vedesti, e cui sì spesso Della villa consultano i pastori, Indicato ci avea. Per procacciarlo Impaziente alla città mi volsi. Saliva il sole in cielo, e la marina Di lontano splendea: ma la campagna Era tacita ancor. Passai non lungi A quell'alto palagio, che alla luna Or vedi biancheggiar dietro alle piante, Colà vicino alla maestra via. Della villa i Signori eran sepolti Nel dolce sonno del mattin. Pur vidi Aperta una finestra, intorno a cui Sporgea ferrea ringhiera, e dentro l'ampia Camera Signoril, sul pavimento E il lucido apparato, che l'opposta Parete ricopria, dal sol dipinta L'immagine mirai della finestra. A cui dinanzi con negletta veste Un dei servi passar vidi, che intento Sulla scopa pendea. Quanto lugubri Per me fur quei momenti! Alla cittade Giunsi, tolsi il rimedio, e qua tornai. Fra speme, e fra timor, tremante, incerto Entrai sospeso... Morto era Filino. Pallido il rimirai: finito io vidi Il respirar sulle gelate labbra: Serrate le palpebre, e rilucenti Pel ghiacciato sudor l'umide chiome. Ahi mio Filino! Da quel tempo ancora Quel mesto orror, quei funebri momenti, Quel tristo dì dimenticar non posso. DAMETA Ben men sovvengo anch'io: che nel levarmi Quella mattina, oltre l'usato io vidi Trista la mamma. Al mio Filino io tosto Correr voleva: ella il vietò, mi disse Che ancor dormiva, e uscir mi fece al prato Ma nel tornar con festa, e saltellando Pianger la vidi. Io m'acchetai, pian piano Le venni appresso, e presale la gonna, Mesto le dimandai perchè piangesse. Ella china abbracciommi, ed appoggiando Alla mia la sua fronte, ah figlio, disse, Caro Dameta mio, Filino è morto. Allor piansi ancor io. La mamma invano Trattenermi volea: poi ch'ella il guardo Rivolse altrove, al letticciuolo io corsi Del mio caro Filin. Fiso dapprima Il rimirai, poi sullo smorto viso Mille baci gli diedi, e colla mano Toccai la fredda guancia, e gli occhi chiusi Di riaprir gli cercai. Deh quanto io piansi In veder come più non si movea! Filin! fratello! io gli diceva, oh Dio. Tu non mi vedi più... Che far giammai Potrò senza di te? Quanto t'amava! Quanto m'amavi! alla selvetta, al prato Sempre eravamo insieme: oh quante volte Corremmo a gara, e a gara tra le foglie Cogliemmo i più bei fior! quante sull'erba La sera assisi al raggio della luna, Cantammo insiem! Tu m'insegnavi il suono Sopra le canne a modular, che spesso Di tua man m'apprestavi; o a far panieri Per empirli di fiori; o a lanciar sassi A un albero lontan. Spesso nel bosco Tendemmo insidie agli augelletti, e insieme Ci partimmo la preda. Entro un canneto Spesso nascosto io l'amor tuo cercai Deludere un momento: ansioso allora Tu di me givi in traccia. Il riso mio, O lo scrosciar delle vicine canne Mi tradiva talor: tu mi scoprivi, E lieto a me correvi, e in abbracciarmi Del mio crudo piacer mi riprendevi. Oh quanto ci amavamo! Ah tutto tutto È finito per noi. Caro fratello Tu mi lasciasti... Al giuoco, in casa io sempre Solo restar dovrò? No, che la vita Menar più non potrei... Caro Filino, Ah tu moristi, ah morir voglio anch'io. Egli piangea; tra le ginocchia il prese Il buon Micone, e gli asciugava il pianto, E consolando il gia. MICONE Diman condurti Alla cittade io vo', diman la tomba Ti mostrerò di tuo fratello, e voglio Che venga insiem con noi la mamma ancora. Ah figlio! ah tu sei morto! il padre tuo Che sì t'amò, dimenticar sapresti?

Tag: sempre    fratello    spesso    figlio    caro    mamma    luna    morto    male    

Argomenti: lucido insetto,    fuggitivo riso,    dolce sonno,    caro fratello

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