Le Grazie di Ugo Foscolo

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FRAMMENTI DELLA CHIOMA DI BERENICE
(1803) I. Ne' frammenti greci ch'io credo d'un antico inno alle Grazie, da me un tempo tradotti, veggonsi le Ninfe fluviali ancelle ad un convito dato in Tempe da Venere a tutti gli Dei, e le Ore ministre del carro e de' cavalli del Sole. Odorata spirar l'aura dai crini Molli ancor per la fresca onda del Xanto, Sentiano i venti, perchè venne Apollo. A lui furtive sorridean di Anfriso, De' pastorali amor conscie le Ninfe, Alla mensa ministre. Intanto le Ore Sciogliean dall'aureo cocchio i corridori, E risciacquando nel Penèo le briglie Spremean la spuma... II. Né sia di meraviglia che le donne belle, e gl'imperadori (perocché l'une e gli altri inebriati per continue adulazioni affettano divinità) coltivassero le bionde capigliature. Apollo e Bacco bellissimi numi, Mercurio e Minerva protettori de' capelli (vedi considerazione nostra IV) erano biondi. Ne' frammenti dell'inno alle Grazie da me citato, il capo di Pallade è detto purrokòmes; ecco la mia versione. Involontario nel Pierio fonte Vide Tiresia giovinetto i fulvi Capei di Palla liberi dall'elmo Coprir le rosee disarmate spalle; Sentì l'aurea celeste, e mirò le onde Lambir a gara della Diva il piede E spruzzar riverenti e paurose La sudata cervice e il casto petto Che i fulvi crin discorrenti dal collo Coprian siccome li moveano l'aure. III. Ma ben conveniva alle Grazie la capigliatura di colore dilicato e soave, che presume il candore delle membra, e non isbatte sì fortemente sulla tinta rosea del volto. Piacemi di riferire la traduzione de' frammenti greci da me citati dianzi, ed a pag. 115. — Or delle Grazie Nè d'aurei raggi liberale è il crine Siccome è il crine del divino Apollo Allor ch'ei monta per lo sacro clivo D'Olimpo, e più s'infocano i cavalli Non pur del grido e de' spumosi morsi Al comandar, o della sferza al fischio; De' dardi il tintinnir dentro il turcasso Aureo, capace, e pien di eterna possa Quei quattro corridori incalza quando Del Saturnio signor veggon le case Meta di Febo. Nè di foco rosse Sono le trecce delle care Grazie Quali sotto il cimier contien Bellona Pari alla giuba delle sue poledre Che pel di lionessa hanno e vigore. Nè son ricciute come il crin d'Amore Non come quel di Cintia cacciatrice Pallide, e tutte rannodate al collo. Ma d'onde spesse cascano le chiome Sembran più fosche, e sono auree le ciocche Che sparse al vento van mutando anella E mostran varj ognor biondeggiamenti. Spiran soave odor, ma non di mirra Non delle rose di Cirene odore, Inclite rose! Ma cotal fragranza Mandano pari all'armonia che diede D'Orfeo la Lira, allor che al sacro capo Dalle baccanti di Bistonia infissa Venne nell'alto Egeo spinta dai monti, E un'armonia suonò tutto quel mare, E l'isole l'udiano e il continente, Sebben nè vate mai nè arguta corda Di Lidia cantatrice a quel fatale Suono die' legge e nome... IV. Quantunque questa poesia non abbia i caratteri della nobile semplicità Omerica, e sente al mio parere la raffinatezza de' poeti latini, veggonsi nondimeno disjecti membra poetae, ed un ardire felice. Ecco dove si dipinge Giove che scende al convito apprestato da Venere in Tempe. Della luce infinita i rai deposti Tutto–veggenti, e il telo onnipotente Scendeva in terra fra l'ambrosie tazze Giove dell'universo animatore. Rizzarsi i Numi, e Cipria riverente Cedeagli il loco; armonizzar le lire S'udiano allor delle vergini Muse E cantar Febo, ed olezzare i boschi, E risuonare i Tessali torrenti, E risplendere il cielo, e delle Dive Raggiar più bella l'immortal bellezza, Chè Giove padre sorrideva, e in lui Con gli occhi intenta, l'aquila posava. TRE FRAMMENTI DALL'EDIZIONE CALBO 1 A lei futura d'Arno abitatrice il vago ostello edificò il garzone Avvenente d'Urbino; ode in quest'orti Amor quell'arpa, e tacito sospira Poichè rimembra che a Minerva un giorno Compagno fu quand'essa il primo bacio Diè all'infante divino; e poscia Amore Tanto il piagò d'un infocato dardo Che di sacra ed eterna ombra ravvolse Dell'artefice i guardi, a' quai raggiante Del dolce lume dell'aurora e nuda La beltà dei celesti in terra apparve. Quinci, ove ancor più che la gioja ascolto Spesso errare un sospiro, esce la prima Vaga mortale, e siede all'ara, [...] 2 Chi le Grazie adorò manda agli afflitti Un pietoso sospir simile ai lai D'usignuol che le meste ombre lusinghi. E qual vento che lungi al pellegrino Annunzia i pomi dell'arancio e i lauri All'umane virtù candido arride. E ad imago del sol quando da bianca Nebbia adugge le tarde erbe maligne Fra cui zampilla il rivo, e di quel foco Fa chiaro il rivo e sol le piante uccide; Così alle Dive mie piace contesto L'industre vel dell'ironia che i dardi Troppo acuti del ver tempra a' mortali. 3 Forse un'altra il mio canto udrà fra i poggi Ove di Aprile ai zefiri son care L'ombre molli dei pioppi, e i mille fonti Limpidi e vaghi onde l'Insubria è lieta. Aure di Aprile ridestate i fiori Sotto ai suoi passi, e di odorati orezzi Rinfrescate il suo petto or che rimosso Il lunghissimo velo, alla sventura Che per arduo sentiero alla sua lena A virtù la guidò, porge sommessa Preghi e sospiri, e taciturna intende L'aura notturna che le geme intorno. Eppur Natura a lei co' primi rai Del sol, gli affetti le mandò soavi E innocenti nel petto; e i vezzi, e il ballo Meraviglia e desio de' giovinetti E che voi sole le apprendeste o Grazie A voi più che ad amor gaja serbava. SECONDA REDAZIONE DELL'INNO
Le Grazie. Inno
Ad Antonio Canova Cantando, o Grazie, degli eterei pregi Di che il cielo v'adorna, e della gioja Che vereconde voi date alla terra, Volan temprati armoniosi i versi Del peregrino suono uno e diverso Di tre favelle. Al nome vostro, o Dive, Io mi veggio dintorno errar l'incenso Qual si spandea su l'are agl'inni arcani D'Anfione: presente odo il nitrito De' destrieri dircei; benchè Ippocrene Li dissetasse, e li pascea dell'aure Eolo, e prenunzia un'aquila volava E de' suoi freni li adornava il Sole Pur que' vaganti Pindaro contenne Presso Orcomeno ed adorò le Grazie: E delle Grazie al nome, un Lazio carme Vien sonando imenei dall'isoletta Di Sirmione per l'argenteo Garda Fremente con altera onda marina Da che le nozze di Peleo cantate Nella reggia del mar, l'aureo Catullo Al suo Garda cantò. Sacri poeti, A me date voi l'arte a me de' vostri Idiomi gli spirti, e con gli Etruschi Modi seguaci adornerò più ardito Le note istorie, e quelle onde a me Clio Dal santuario suo fassi cortese. E tuo Canova è l'inno: al cor men fece Dono la bella Dea che in riva d'Arno Sacrasti alle tranquille arti custode Ed ella d'immortal lume e d'ambrosia La santa immago sua tutta precinse. Forse, (o ch'io spero) o artefice di Numi Nuovo meco darai spirto alle Grazie Che di tua man sorgon dal marmo: anch'io Pingo e di vita i simolacri adorno; Sdegno il verso che suona e che non crea; Perchè Febo mi disse: Io Fidia primo Ed Apelle guidai con la mia lira. Eran l'Olimpo, e il Fulminante, e i Fati: E del tridente Enosigéo tremava La genitrice terra; Amor dagli astri Pluto feria: nè ancor v'eran le Grazie. Una diva correa lungo il creato Ad agitarlo, e di Natura avea L'austero nome; fra' celesti or gode Di cento troni; e con più nomi ed are Le dan rito i mortali, e più le giova L'inno che bella Citerea la invoca. Perchè clemente a noi che mirò afflitti Travagliarci e adirati, un dì la santa Diva all'uscir de' flutti ove s'immerse A fecondar le gregge di Nereo Apparì con le Grazie, e le raccolse L'onda Ionia primiera, onda che amica Del lito ameno e dell'ospite musco Da Citera ogni dì vien desiosa A' materni miei colli: ivi fanciullo La deità di Venere adorai. Salve Zacinto! Alle Antenoree prode De' santi Lari Idei ultimo albergo E de' miei padri, darò i carmi e l'ossa E a te il pensier: chè piamente a queste Dee non

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