La vita comincia domani di Guido da Verona

Testo di pubblico dominio

I Nella grande loggia vetrata che si apriva a pianterreno della villa verso il giardino fiorito Maria Dora entrò, più fresca e più gioconda che la primavera, portando sopra un vassoio d'argento le chicchere del caffè mattutino. Da un braccio le pendeva ripiegata una lunga tovaglia di colore; coi denti umidi mordeva il gambo d'una rosa, vermiglia come la sua bocca. Era mattina di primavera, limpida e gaia, con profumi d'oleandri che si mettevano in fiore. Stormi di rondini, balenanti nell'azzurrità come turbini di api nere, assalivan la grondaia sovraccarica di nidi e sì l'accerchiavano coi loro spessi voli, che l'aria, tra quel saettamento, pareva tingersi d'un color di nuvolato nella fiamma del mattino. Maria Dora trascinò verso il mezzo del colonnato una piccola tavola in vermena di vinco, e, spiegata la tovaglia, cantarellando cominciò ad apparecchiare. Suo padre, Stefano, in giacca di frustagno, ritto sul margine d'un'aiuola discuteva gesticolando con il fattore Mattia. Una doppia scalinata di cinque gradini scendeva da un lato e dall'altro della veranda pianamente nel giardino; su la duplice balaustrata e lungo il davanzale invetriato correva una spalliera di geranio rampicante, che, salito per lo zoccolo del muro, lanciava in alto come un'ondata la straordinaria sua fioritura, poi, curvandosi, buttava sino a terra un magnifico mantello di broccato, colmo nelle sue pieghe d'innumerevoli fiori; leggeri alcuni e tenui come arabeschi di filigrana, che li moveva il più sommesso vento, altri così grevi e soffici che ricadevano per il soverchio peso, come fiori tramati in una stoffa o ritagliati a forbici nella foltezza di un meraviglioso velluto. Questa grande spalliera di gerani era l'amore e l'orgoglio di papà Stefano, che vi prodigava tutte le sue cure. Dallo sterrato innanzi alla casa il viale, sparso di ghiaia, si cacciava senza nascondersi entro un piccolo bosco di bambù; snodava le sue curve tortuose per il pendìo dei giardino, poi, rompendo fuori da una macchia d'alberi e fiancheggiandosi d'un pergolato, scendeva diritto al cancello verso la strada campestre. Rapidamente, con le sue mani svelte, la fanciulla ordinò le chicchere sul tavolino. Da poco erasi levata in quel mattino ilare; aveva indosso un buon odore d'acqua di lavanda e di cipria fina; i capelli dorati le splendevano della recente acconciatura; portava una gonnella corta con sopra un bel grembiule merlettato. Seduto in un angolo della loggia, il suo fratello più che ventenne, Marcuccio lo scemo, scriveva a matita velocemente, con una specie di frenesia, tenendo il quaderno su le ginocchia sollevate e standovi sopra curvo, in attitudine di gran fatica. Un passo lontano da lui, sovra una seggiola di paglia, era il suo logoro violino e v'erano i suoi grossi gomitoli di lana, coi ferri da calza, poichè scrivendo, sonando e facendo la calza egli occupava la monotonia delle sue lunghe giornate. — Uh!... Marcuccio, come lavori!... — fece Maria Dora, guardandolo. Ma lo scemo, lunatico, scrollò le spalle e non rispose. Ora nel giardino papà Stefano redarguiva con voce burbera il fattore; questi l'ascoltava pieno di rispetto, ma insieme con quella cert'aria cocciuta e ironica che sanno avere i contadini. — Insomma, vi dico, Mattia, che se Giannozzo ha rotto l'aratro, è lui che se lo deve pagare. Il contratto colonico parla chiaro: danni di cascinali e d'attrezzi a carico dell'affittuario. Io non so nulla! Ha firmato... non doveva firmare. Maria Dora, che l'ascoltava dal loggiato, ruppe in un trillo di riso. Stefano si volse: — Che hai tu, farfallina? La fanciulla battè insieme le mani, quasi per dileggiarlo, e scappò via. Stefano concluse: — Dunque non voglio saper nulla! Ditelo chiaro e tondo a Giannozzo da parte mia. — Va bene, signor Stefano, lo dirò... solamente... — Solamente cosa? Che altro c'è ancora? — C'è questo: Giannozzo dice che, se lei rifiuta, vorrebbe allora parlarne con suo genero, con il signor Giorgio direttamente... — Ah, sì? — l'interruppe Stefano gonfiandosi di sdegno. — Cosa vuol dire questo «direttamente?» Nell'agitarsi diede un calcio all'annaffiatoio, che aveva presso e lo capovolse. Poi alzò la voce: — Chi comanda qui sono io! Lo sappia Giannozzo e sappiatelo anche voi: chi comanda sono io! — Benissimo, signor Stefano, — costui rispose con molta umiltà. Dunque andate alla cascina e dite a Giannozzo che se l'aratro è rotto... in qualche modo si provvederà. Non faccio alcuna promessa, intendiamoci!... Ma dico soltanto che bene o male si provvederà. Stefano gli volse le spalle, scese alla vasca, riempì l'annaffiatoio, e tornato verso la spalliera di gerani, cantarellando ne mondava i fiori. — Uh, la la... dormono ancora tutti come talpe stamattina! In questa casa si dorme come talpe... la... la... come talpe... uh, la la... E Giorgio sempre peggio! Voglia il cielo ch'io m'inganni, ma vedo che se ne va... uh, la la... Maria Dora saltò fuori dai loggiato: — Che avevi, papà, da gridar tanto? — Ah, sei qui fanfaluca? — Poi le mostrò l'orologio: — Sai che ore sono? — Quasi le otto, papà. — Appunto, — egli rispose, contraffacendo la sua vocina: — Quasi le otto! le otto meno cinque minuti, e non c'è nulla di pronto ancora! Poi salì verso il loggiato: — Ogni giorno ci si leva più tardi, eh? Si prendono tutti i vizi, quando si esce dal convento! Maria Dora gli si avvicinò, smorfiosa come una piccola bimba, la quale non temesse tuttavia quel suo padre accigliato. — Benissimo!... vediamo un po': grembiuli di pizzo, ricciolini... cipria!... scommetto che ti dai anche la cipria! Maria Dora gli tese la guancia, ma tenendosi un po' discosta per non lasciarsi toccare: — No, papà; guarda: è naturale... Ed egli minaccioso: — Bada che se ti scopro, sai!... La cipria è la farina del diavolo. E poi si diventa curiose anche! Si vuol mettere il nasino dappertutto! Si vuol sapere perchè gridavo con Mattia... Fra poco la padrona della casa sarai tu. — Oh, io lo so perchè gridavi! Per l'aratro di Giannozzo... Io l'ho veduto: è tutto guasto. Compragli un altro aratro, papà, al povero Giannozzo! — Tu mischiati de' tuoi libri e delle tue matasse! Queste cose non sono per te. Ora chiama Novella e vedi se la mamma s'è levata. — La mamma è in cucina che sorveglia il caffè, se no la Berta, scioccona, lo lascia versare. Novella prendeva il bagno poco fa. Ma c'è uno che dormirebbe, e come dormirebbe! se non l'avessi svegliato io. Ella si prese fra le dita i due lembi del grembiulino e fece una piccola riverenza: — Voglio dire Andrea... il professor Andrea!... il signor Andrea, l'uomo celebre! — Ah, e tu l'hai svegliato? — Almeno suppongo; perchè sono passata cinque o sei volte nel corridoio, davanti alla sua camera, cantando a squarciagola. Poi ho anche picchiato, poi ho anche messo la testa dentro... — soggiunse con un atto di pudore. — Oh, pettegola e svergognata! — esclamò il padre, nascondendo nella minaccia un sorriso. — Pettegola e svergognata! Dunque tu metti la testa nelle camere dei giovinotti? — Bah... i giovinotti! — ella interruppe, con una specie di commiserazione. — Avrà quarant'anni! — Trentasei o trentasette, signorina; non più. — Ma è brutto!... non ti sembra, papà, che sia molto brutto? — interrogò Maria Dora, con l'aria di non crederlo affatto. Poi, sogguardando con civetteria dal volto chinato: — È vero — domandò con una voce piena d'insidie, — è vero che tu e la mamma vorreste darmelo per marito? Il padre, con uno scatto, si guardò intorno esclamando: — Silenzio! Cosa dici mai! Seduto in un angolo del loggiato, il suo fratello Marcuccio scriveva, scriveva. — Cosa dici mai? Fa che Andrea ti senta! Non è vero, signorina; non è affatto vero! Chi può pensare che un uomo come Andrea, un uomo serio, uno scienziato di così gran nome, voglia sposare una pettegola come te?

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Argomenti: piccolo bosco,    grande loggia,    duplice balaustrata,    magnifico mantello,    grande spalliera

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