Il conte di Carmagnola di Alessandro Manzoni

Testo di pubblico dominio

ATTO I SCENA I Sala del Senato, in Venezia. IL DOGE eSENATORIseduti. IL DOGE È giunto il fin de' lunghi dubbi, è giunto, Nobil'uomini, il dì che statuito Fu a risolver da voi. Su questa lega A cui Firenze con sì caldi preghi Incontro il Duca di Milan c'invita, Oggi il partito si porrà. Ma pria, Se alcuno è qui cui non sia noto ancora Che vile opra di tenebre e di sangue Sugli occhi nostri fu tentata, in questa Stessa Venezia, inviolato asilo Di giustizia e di pace, odami: al nostro Deliberar rileva assai che alcuno Qui non l'ignori. Un fuoruscito al Conte Di Carmagnola insidiò la vita Fallito è il colpo, e l'assassino è in ceppi. Mandato egli era; e quei che a ciò mandollo Ei l'ha nomato, ed è — quel Duca istesso Di cui qui abbiam gli ambasciatori ancora A chieder pace, a cui più nulla preme Che la nostra amistà. Tale arra intanto Ei ci da della sua. Taccio la vile Perfidia della trama, e l'onta aperta Che in un nostro soldato a noi vien fatta. Due sole cose avverto: egli odia dunque Veracemente il Conte, ella è fra loro Chiusa ogni via di pace, il sangue ha stretto Fra lor d'eterna inimicizia un patto. L'odia — e lo teme: ei sa che il può dal trono Quella mano sbalzar che in trono il pose, E disperando che più a lungo in questa Inonorata, improvida, tradita Pace restar noi consentiamo, ei sente Che sia per noi quest'uom; questo fra i primi Guerrier d'Italia il primo, e quel che monta Forse ancor più, delle sue forze istrutto Come dell'arti sue; questi che il lato Saprà tosto trovargli ove più certa E più mortal fia la ferita. Ei volle Spezzar quest'arme in nostra mano; e noi Adoperiamla, e tosto. — Onde possiamo Un più fedele e saggio avviso in questo Che dal Conte aspettarci? Io l'invitai: Piacevi udirlo? (segni di adesione) S'introduca il Conte. SCENA II IL CONTE e detti. IL DOGE Conte di Carmagnola, oggi la prima Occasion s'affaccia in che di voi Si valga la Repubblica, e vi mostri In che conto vi tiene: in grave affare Grave consiglio ci abbisogna. Intanto Tutto per bocca mia questo Senato Si rallegra con voi da sì nefando Periglio uscito; e protestiam che a noi Fatta è l'offesa, e che sul vostro capo Or più che mai fia steso il nostro scudo, Scudo di vigilanza e di vendetta. IL CONTE Serenissimo Doge, ancor null'altro Io per questa ospital terra, che ardisco Nomar mia patria, potei far che voti. Oh! mi sia dato alfin questa mia vita, Pur or sottratta al macchinar dei vili, Questa che nulla or fa che giorno a giorno Aggiungere in silenzio e che guardarsi Tristamente, tirarla in luce ancora E spenderla per voi, ma di tal modo, Che dir si possa un dì, che in loco indegno Vostr'alta cortesia posta non era. IL DOGE Certo gran cose, ove il bisogno il chiegga, Ci promettiam da voi. Per or ci giovi Soltanto il vostro senno. In suo soccorso Contro il Visconte l'armi nostre implora Già da lungo Firenze. Il vostro avviso Nella bilancia che teniam librata Non farà picciol peso. IL CONTE E senno e braccio E quanto io sono è cosa vostra: e certo Se mai fu caso in cui sperar m'attenti Che a voi pur giovi un mio consiglio, è questo. E lo darò: ma pria mi sia concesso Di me parlarvi in breve, e un cuore aprirvi, Un cuor che agogna sol d'esser ben noto. IL DOGE Dite: a questa adunanza indifferente Cosa che a cor vi stia giunger non puote. IL CONTE Serenissimo Doge, Senatori; Io sono al punto in cui non posso a voi Esser grato e fedel, s'io non divengo Nemico all'uom che mio Signor fu un tempo. S'io credessi che ad esso il più sottile Vincolo di dover mi leghi ancora, L'ombra onorata delle vostre insegne Fuggir vorrei, viver nell'ozio oscuro Vorrei, prima che romperlo e me stesso Far vile agli occhi miei. Dubbio veruno Sul partito che scelsi in cor non sento, Perch'egli è giusto ed onorato: il solo Timor mi pesa del giudizio altrui. Oh! beato colui, cui la fortuna Così distinte in suo cammin presenta Le vie del biasmo e dell'onor, ch'ei puote Correr certo del plauso, e non dar mai Passo ove trovi a malignar l'intento Sguardo del suo nemico. Un altro campo Correr degg'io, dove in periglio sono Di riportar — forza è pur dirlo — il brutto Nome d'ingrato, l'insoffribil nome Di traditor. So che dei Grandi è l'uso Valersi d'opra ch'essi stiman rea, E profondere a quei che l'ha compita Premj e disprezzo, il so; ma io non sono Nato a questo; e il maggior premio ch'io bramo, Il solo, egli è la vostra stima, e quella D'ogni cortese; e — arditamente il dico — Sento di meritarla. Attesto il vostro Sapiente giudicio, o Senatori, Che d'ogni obbligo sciolto inverso il Duca Mi tengo, e il sono. Se volesse alcuno Dei beneficj che fra noi son corsi Pareggiar le ragioni, è noto al mondo Qual rimarrebbe il debitor dei due. — Ma di ciò nulla: io fui fedele al Duca Fin ch'io fui seco, e nol lasciai che quando Ei mi v'astrinse. Ei mi cacciò del grado Col mio sangue acquistato: invan tentai Al mio Signor lagnarmi. I miei nemici Fatto avean siepe intorno al trono: allora M'accorsi alfin che la mia vita anch'essa Stava in periglio: — a ciò non gli diei tempo. Ché la mia vita io voglio dar, ma in campo, Per nobil causa, e con onor, non preso Nella rete dei vili. Io lo lasciai E a voi chiesi un asilo; e in questo ancora Ei mi tese un agguato. Ora a costui Più nulla io deggio; di nemico aperto Nemico aperto io sono. All'util vostro Io servirò, ma franco e in mio proposto Deliberato, come quei ch'è certo Che giusta cosa imprende. IL DOGE E tal vi tiene Questo Senato: già fra il Duca e voi Ha giudicato irrevocabilmente Italia tutta. Egli la vostra fede Ha liberata, a voi l'ha resa intatta, Qual gliela deste il primo giorno. È nostra Or questa fede; e noi saprem tenerne Ben altro conto. Or d'essa un primo pegno Il vostro schietto consigliar ci sia. IL CONTE Lieto son'io che un tal consiglio io possa Darvi senza esitanza. Io tengo al tutto necessaria la guerra, e della guerra — Se oltre il presente è mai concesso all'uomo Cosa certa veder — certo l'evento; Tanto più, quanto fien gl'indugi meno. A che partito è il Duca? A mezzo è vinta Da lui Firenze; ma ferito e stanco Il vincitor: vuoti gli erarj: oppressi Dal terror, dai tributi i cittadini Pregan dal ciel su l'armi loro istesse Le sconfitte e le fughe. Io li conosco, E conoscer li deggio: a molti in mente Dura il pensier del glorioso, antico Viver civile; e tostamente un guardo Rivolgon di desio là dove appena D'un qualunque avvenir si mostri un raggio, Frementi del presente e vergognosi. Ei conosce il periglio; indi l'udite Mansueto parlarvi; indi vi chiede Tempo soltanto da sbranar la preda Che già tiensi fra l'ugne, e divorarla. Fingiam che glielo diate: ecco mutata La faccia delle cose: egli soggioga Senza dubbio Firenze; ecco satolle Le costui schiere col tesor dei vinti, E più folte e anelanti a nuove imprese. Qual Prence allor dell'alleanza sua Far rifiuto oseria? Beato il primo Ch'ei chiamerebbe amico! Egli sicuro Consulterebbe e come e quando a voi Mover la guerra, a voi rimasti soli. L'ira che addoppia l'ardimento al prode Che si sente percosso, ei non la trova Che nei prosperi casi: impaziente D'ogni dimora ove il guadagno è certo; Ma nei perigli irresoluto: ai suoi Soldati ascoso, del pugnar non vuole Fuor che le prede. Ei nella rocca intanto, O nelle ville rintanato attende A novellar di cacce e di banchetti, A interrogar tremando un indovino. Ora è il tempo di vincerlo: cogliete Questo momento: ardir prudenza or fia. IL DOGE Conte, su questo fedel vostro avviso Tosto il Senato prenderà partito; Ma il segua, o no, vi è grato; e vede in esso, Non men che il senno, il vostro amor per noi. (parte il Conte). SCENA III IL DOGE e SENATORI. IL DOGE Dissimil certo da sì nobil voto Nessun s'aspetta il mio. Quando il consiglio Più generoso è il

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Argomenti: due sole,    inviolato asilo,    duca istesso,    saggio avviso,    adunanza indifferente

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