Garibaldi di Francesco Crispi

Testo di pubblico dominio

DISCORSO improvvisato al Teatro Brunetti di Bologna, per invito del Circolo Universitario Vittorio Emanuele il 1º Giugno 1884 Signore e Signori, Io non so se debba ringraziare più il Circolo universitario il quale mi volle onorare dell'incarico di commemorare Giuseppe Garibaldi, o questo eletto uditorio che non mi attendevo. Io credeva che sarei venuto a fare una conferenza ai giovani dell'Università; trovo invece tutto un popolo innanzi a me. La conferenza per la sua modestia, parrebbe inferiore ad un discorso che converrebbe tenere innanzi a voi. Il popolo di Bologna per me è stato uno dei più simpatici dell'Italia. Non dimenticherò, signori, quello che fu fatto da questa eroica città nei momenti terribili in cui il governo del prete, baldanzoso delle baionette austriache, insolentiva su voi, e come voi più di una volta tentaste di rompere le catene che vi tenevano nella schiavitù. Non dimenticherò che in questa città sorse il primo Ateneo scientifico del mondo, che qui fu la sede del diritto, e che innanzi ai vostri giureconsulti si inchinavano reverenti gli imperatori di Germania, quando anche erano padroni del paese nostro. Comprenderete dunque con quale animo io debba parlare, e come sia titubante al pensiero se potrò riuscire a soddisfare le vostre legittime esigenze. Oggi, signori, è la festa dell'unità nazionale; domani sarà l'anniversario della morte di Garibaldi. Ben fecero gli studenti nell'aver voluto commemorare il luttuoso anniversario in questo giorno sacro alla patria, alla quale è indissolubilmente legato il nome dell'Eroe. La festa dell'unità nazionale ricorda a tutti noi che lo Statuto di Carlo Alberto, promulgato spontaneamente al 1859 e al 1860 dai governi insurrezionali, fu completato dai plebisciti. Con essi sorse e si consolidò il nuovo giure publico italiano, contemperandosi il diritto regio col diritto popolare, l'autorità di Vittorio Emanuele colla volontà di Garibaldi, il quale fu ai tempi suoi la vera personificazione del popolo. (Applausi). E poichè dovrò parlare di Garibaldi, che potrò dire di lui che voi non sappiate? Nei due anni che sono corsi dopo la morte dell'Eroe, furono scritti su lui opuscoli e libri di ogni genere. È possibile, signori, che la sua vita sia una miniera non esaurita, e che io possa dirvi cose nuove, e dipingere con nuovi colori la figura dell'uomo che ha tanto operato per la patria? È possibile che io vi parli convenientemente e come si deve dell'uomo innanzi al quale si inchinarono reverenti popoli e principi? Garibaldi a 25 anni fu affigliato alla Giovane Italia e si fece cospiratore; a 27 anni fu proscritto. Presa la via dell'esilio, si rivelò grande ammiraglio e potente capitano. Al 1860 quando compiè l'impresa di Sicilia, si scoprì ch'era in lui la mente del legislatore. I suoi storici non hanno saputo dirci dove abbia fatto gli studii; quale Università abbia frequentato, in qual collegio militare, in quale istituto di marina abbia appreso l'arte della guerra: e non lo potevano. Dal 1837 al 1846, nelle libere terre di America, nei tempestosi flutti dell'Oceano egli apprese a combattere e a vincere. Ivi il suo genio si scoprì ai popoli attoniti, o l'eco lontana ripercosse sulla vecchia Europa, mentre la patria nostra era schiava, i plausi delle città redente dal valore italiano. Garibaldi come matematico non ebbe rivali. Gli erano famigliari i nostri grandi poeti e i nostri publicisti. Seppe la storia meglio di uno dei nostri accademici: e fu entusiasta di quella di Roma, i cui ruderi aveva visitato all'età di 15 anni, e n'era rimasto meravigliato. Ai nostri giorni si osò dubitare che fossero sue alcune considerazioni di diritto publico internazionale, fatte al Parlamento subalpino, sol perchè si era avvezzi a vedere in lui il marinaio e il soldato. Orbene, nell'aprile 1860, quando si preparava la spedizione dei Mille, Bixio ed io lo trovammo collo Statuto in mano che commentava meglio dei professori emeriti delle nostre Università. Allora l'animo suo era tutto compreso nella difesa della sua Nizza nativa che una crudele ragione di Stato aveva deciso di strappare alla madre Italia (Applausi prolungati). Dissi che, presa la via dell'esilio, egli si è rivelato gran capitano e grande ammiraglio. Permettetemi, signori, che io accenni, senza estendermi, ai primi anni della sua vita militare, e che non vi narri in tutti i particolari quello che egli abbia fatto prima del 1860. A Montevideo ed a Roma, in Lombardia, in Tirolo, e poscia nei Vosgi egli non era signore di sè, altri esercitando l'impero e l'autorità nei paesi in cui ebbe a combattere. La storia ricorderà le virtù del gran Capitano, la strategia, le risorse sul campo di battaglia, il coraggio col quale seppe vincere un nemico dieci volte superiore di forze; ma l'epopea di Garibaldi, il suo grande poema è la campagna del 1860. Dittatore e capitano, libero delle sue azioni, ha provato quanto egli sapeva e quanto poteva. La storia del 1860 fu scritta da parecchi, ma non tutti seppero e poterono farla con precisione e senza commettere errori. Certamente non ve la farò io oggi questa storia, così ampiamente come la vorrei, imperocchè il breve spazio di una conferenza, non me lo permetterebbe. Ve ne dirò abbastanza, perchè ve ne formiate un esatto concetto. La notte del 5 maggio i Volontari si raccolsero a Quarto; la mattina del 6 si imbarcarono sul Piemonte e sul Lombardo che una mano poderosa di nostri giovani amici aveva strappato al porto di Genova. I primi due giorni, tutti ignoravano dove andasse la piccola flotta, la quale veramente questa volta portava i destini d'Italia. Taluni credevano che andasse nel territorio allora pontificio; altri in Calabria; pochi ancora si persuadevano che l'impresa era destinata per la Sicilia. Quando fu saputo che Garibaldi il 7 maggio era stato a Talamone, che si era provveduto di munizioni e n'era partito, la mente degli uomini di Stato vagò in mille fantasie. Quando un pugno di Garibaldini sconfinò il territorio romano, le paure crebbero; si credette che Garibaldi avrebbe attuato quel progetto che gli era stato impedito alla Cattolica, e ne fu ordinato l'arresto. Navigammo in alto mare, e per vie non consuete ai nocchieri. Abbiamo fatto in sei giorni un viaggio che suol farsi in ventiquattr'ore. All'alba dell'11 maggio la piccola flotta surse vicino alle Egadi. Quando partimmo da Quarto, Garibaldi aveva deciso di sbarcare a Porto Palo, fra Trapani e Girgenti; ma essendo presso le Egadi, seppe che le truppe borboniche avevano lasciato Marsala la notte prima, e che la flotta di re Francesco aveva preso per le coste del Levante; Garibaldi decise per Marsala. Non saprei esprimervi lo stato degli animi nostri quando fu preparata la spedizione, durante il viaggio ed al nostro arrivo in Sicilia. Erano gli anni della poesia (Grandi applausi). Accanto a Garibaldi tutto pareva possibile; non si vedevano pericoli, non si temevano ostacoli. Il desiderio affrettava il momento dell'azione; a nessuno pareva che l'azione potesse essere inferiore alla volontà, e che il più ardito desiderio potesse essere una esagerazione (Approvazioni). Siamo entrati nel porto. Garibaldi approdò a sinistra, sul Piemonte. Bixio con quella furia che fu memorabile in lui, virò a destra, arenando col Lombardo; La flotta napoletana, informata col Semaforo del nostro arrivo, ci corse subito incontro; siamo scesi in mezzo alla mitraglia, ma Marsala fu occupata. La notte dall'11 al 12 maggio la passammo vegliando ed aspettando il nemico, che non si fece vedere. Abbiamo dovuto marciare su Calatafimi per incontrarlo. A Calatafimi il generale Landi disponeva di 8 mila uomini di ogni arma; cavalleria, artiglieria, fanteria e cacciatori. Garibaldi aveva il comando di appena 1600 uomini con cattivi fucili, meno le 100 carabine, che erano in mano ai genovesi; e dei 1600 uomini non tutti entrarono in battaglia. Il nemico era postato sopra una collina, la quale chiamasi il pianto dei Romani.

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